Un guanto per Canelo

9 Maggio 2022 di Glezos

Immagini in diretta dallo spogliatoio: prima di salire sul ring Canelo Alvarez ha un problema. Non riesce ad infilare il guantone sinistro: la fasciatura è come sempre voluminosa, la mano fatica ad entrare, Eddy Reynoso lo aiuta, spinge, sbatte e tira. Niente da fare: il dorato pugno destro del migliore pound for pound al mondo proprio non ne vuole sapere di scivolare nel guanto. Al che arriva un solerte addetto con un altro paio di guanti e li sostituisce.

Magari avesse sostituito l’avversario, mi dico a giochi fatti. Già Dmitry Bivol (19-0) si presentava non esattamente come una fastidiosa fermata obbligatoria nel tragitto di una legacy che lui, lo sfidante, ovvero Saul Alvarez detto Canelo (57-1-2) vedeva atterrare dove non si sa, di certo nei pressi di una località chiamata Leggenda Vivente. A dirla tutta il suo tentativo secco di incoronarsi re dei massimi leggeri WBA aveva fatto aggrottare qualche sopracciglio, soprattutto tra chi Bivol l’aveva visto all’opera.

Ciò pareva non bastare agli occhi della maggioranza degli osservatori e tantomeno a quelli del pubblico, fiduciosi in una vittoria ai punti del portento di Guadalajara nell’aria festosa di un Cinco De Mayo da celebrare in ritardo a braccia alzate, come da (supposto) copione. Al di là delle credenziali e dell’expertise di blogger e giornalisti, più si avvicinava l’ora X più il credito riscosso dal campione in carica russo scemava. E perché mai? Mah. E sì che è noto che pubblico e blogger non salgono sul ring e che salire di categoria di peso può anche non pagare, quando hai di fronte uno più grande e grosso di te.

Annunciato dalle note di Thunderstruck degli AC/DC (una vera ossessione su ogni ring, loro non mancano mai), Dmitry Bivol sale tra le corde tra i fischi del sold out della T-Mobile Arena di Las Vegas. Canelo lo segue in poncho sponsorizzato Dolce & Gabbana sulle ali di uno spettacolino avvilente condito da ballerine in costume, fuochi d’ artificio e orchestrina stonatella alquanto, in una mortificante versione Mariachi de The Final Countdown degli Europe (sì, quella, avete letto bene).

“Non vi fate ingannare dalle apparenze, Canelo sa quello che fa”, buttano lì i commentatori di DAZN. L’effetto è quello di Tyson Fury che rassicura tutti dopo i balletti con Dillian Whyte alla conferenza stampa di due settimane orsono: pessimo biglietto da visita, e primo campanello d’ allarme. Poi suona il gong del primo round, i due si piazzano a centro ring e iniziano subito i grattacapi. Per Saul, beninteso: la guardia sicura, il maggiore allungo e la precisione degli uno-due di Bivol che già gli arrivano sulla faccia portano il messicano ad indietreggiare (al secondo round, cosa mai vista).

La terza ripresa fissa il tema della serata: Dmitry gioca di allungo, porta Canelo alle corde e piazza serie di uno-due sempre a segno, Alvarez risponde tentando colpi al corpo, piazza un discreto uppercut ma è davvero poca roba. Al quarto gong Saul tenta di partire all’attacco, ma non va mai a segno e si spegne in qualche decina di secondi. Sono i primi segnali del vero problema, che inizia a manifestarsi agli occhi di chi sta davvero guardando quello che accade sul ring: Canelo Alvarez non ha né la potenza né la stamina per impensierire un massimo leggero naturale, tutto qui. Il che non è poco, visto il can can mediatico che ci ha accompagnato a un match che col passare delle riprese si rivela in tutta la sua cruda oggettività.

Quarta e quinta ripresa mostrano un Canelo in affanno, i diretti di Bivol entrano nella sua guardia che è un piacere e il linguaggio del corpo conferma il peggio, se è vero che il messicano alle corde arriva a sfidare pateticamente Dmitry a farsi sotto. Il russo lo ignora, attende sulla distanza e dà l’impressione di cercare l’ apertura per il colpo da KO. I round centrali timbrano un ruolino di marcia al limite della manifesta inferiorità: Canelo è segnato sulla fronte e sugli zigomi, all’angolo respira a fatica e la sua frustrazione è evidentissima.

Dall’altra parte della barricata Bivol mostra calma olimpica, padronanza del match e l’accuratezza di colpi che si può permettere solo chi sa di non correre rischi. Il tifo da Viva Mexico è puro onor di firma, l’impotenza di Alvarez cresce ogni secondo che passa e Dmitry si concede una guardia per la prima volta rischiosa (sinistro troppo basso). Nessun problema per lui: Canelo continua a cercare il corpo con colpi larghi sempre più deboli, alcuni portati caricando con la spalla.

Nei championship rounds (gli ultimi due) il messicano sembra non reggersi più in piedi, è sempre alle corde e continua scioccamente a incitare Bivol a farsi sotto: se il russo avesse pugno il match sarebbe finito già da un pezzo. “Canelo, sei indietro sui cartellini, devi fare qualcosa” intima poco convinto Reynoso all’ angolo. Nell’ultimo assalto Saul ci prova, i suoi tentativi raffazzonati si spengono sulla guardia di Bivol e il russo chiude con spettacolari serie di uno-due e con un paio di ripetuti power jab sinistri che fanno barcollare lo sfidante. Che al gong finale ha la faccia tosta di salire sulle corde all’ angolo ed esultare davanti a un campione in carica quasi distaccato. Il mio cartellino recita un 9 a 3 per quest’ ultimo, e sono stato benevolo con un Canelo mai così malmenato dall’inizio alla fine di un match del quale in cuor suo deve avere benedetto il suono dell’ultima campanella.

In attesa del verdetto dei giudici a bordo ring confesso di avere temuto il peggio, visto qualche esempio recente molto poco edificante. La faccenda è sempre quella: nel 90% dei casi per conquistare la cintura lo sfidante deve vincere per KO. Qui  paradossalmente il problema è all’inverso, con le protezioni e l’occhio per così dire di riguardo riservati in passato a Saul Alvarez. Annunciando uno scandaloso verdetto unanime di 115-113 lo speaker David Diamante fa temere il peggio, con Canelo che accenna ad alzare il braccio sinistro. Che fortunatamente l’arbitro gli tiene giù, alzando quello di Dmitry Bivol e timbrando di misura una sorpresa che alla fin fine sorpresa non è.

“Penso di avere fatto abbastanza per vincere ma lui è stato più bravo, ho perso e non accampo scuse”, dichiara un Saul Alvarez nel marasma (perché riconoscere che l’avversario ha fatto meglio, se pensi di avere vinto?). Tra i fischi di un pubblico che proprio non vuole arrendersi alla realtà dei fatti, l’ imperturbabile Dmitry sorride: “Sono contento di avere dimostrato di essere il migliore nella mia categoria di peso. Canelo è un grande campione: mi ha colpito, ma mai in faccia. Un rematch? Certo, parliamone”.  E alla domanda se Alvarez gli avesse fatto male il sorriso si allarga: “Certo che mi ha fatto male. Sul braccio, appunto”.

Morale della storia: ahi ahi, Saul. Perché un errore di valutazione così tragico? Forse è ambizione andata a male, oppure occhi che quasi sempre sono più grandi della gola. O forse è il tempo che passa, gli anni che avanzano e che nessuno ti ridà indietro, e che ti mandano il conto in anticipo nello spogliatoio, insieme a un guanto che non riesci più a infilare fino in fondo.

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