Mister Boxe, intervista a Salvatore Cherchi

Otto chiacchiere con Salvatore Cherchi. Tra passato e futuro, TV e politici, Nino Benvenuti e Million Dollar Baby.

10 Gennaio 2022 di Glezos

Oscar FPI, migliore manager WBO, 6 volte Organizzatore Dell’Anno EBU. Alla guida di OPI 82, poi OPI 2000 e in seguito OPI Since 1982, proseguendo sulle orme del suo maestro Umberto Branchini fino al passaggio del testimone ai figli Alessandro e Christian. Ha portato al titolo mondiale tra gli altri Loris Stecca, Giovanni Parisi, Vincenzo Nardiello, Stefano Zoff, Michele Piccirillo, Cristian Sanavia, Silvio Branco, Giacobbe Fragomeni e Simona Galassi. Ha organizzato oltre 100 match per titoli europei e mondiali. Definire Salvatore Cherchi è compito da lasciare a quello che più di un curriculum è un palmarès, e uno di quelli che parlano da soli. Spulciando il mio archivio ho rinvenuto questa lunga chiacchierata che Salvatore mi ha regalato tempo fa, e che mi ha fatto tornare alle riunioni del venerdì sera al Palalido di Milano a fine anni Settanta. Il migliore viatico per il nuovo anno.

Hai dichiarato che molto spesso i media italiani ritraggono un pugilato fermo a quarant’anni fa.

Salvatore Cherchi: Intendo dire che da noi purtroppo il pugilato viene dipinto come quello di allora. Non si vuole riconoscere che oggi la boxe è praticata da ragazzi di una certa cultura e in alcuni casi di ottima famiglia, oltre ad avvocati, ingegneri, attori e personaggi pubblici, con controlli sanitari ad hoc e con tutto quello che ne consegue. E finora la stessa federazione non è riuscita a fare recepire in pieno che la boxe ha identità e immagine diverse dagli stereotipi del passato.

Dicono che il declino della boxe negli ultimi 20 anni sia dovuto all’indifferenza delle TV. Altri sostengono che mancano i veri talenti. Tu cosa dici?

SC: I talenti ci sono, ma siamo in una situazione in cui le tv preferiscono spendere i loro quattrini diversamente. Così il profilo del pugilato scende a zero, ed è una sorte che tocca anche a pallacanestro, pallavolo e in generale a tutti gli sport che in Italia si definiscono minori: se non c’è il grande avvenimento, tipo il Mondiale di nuoto, qualsiasi sport che non sia il calcio rimane invisibile. I rapporti con le tv sono stati a lungo disastrosi, nonostante il fatto che la boxe – volenti o no – abbia indici di gradimento importanti. Tanto per fare un esempio, in Francia anni fa l’atleta più famoso era un judoka, mentre in Germania non esiste solo il calcio: lì i network investono nello sport intorno ai 100 milioni di euro l’anno. Ma l’educazione allo sport che i governanti hanno dato al nostro paese si identifica nel calcio e solo nel calcio, e qui entriamo in un campo che non ha più nulla a che fare con lo sport ma solo con un business dove si sono oltrepassate tutte le indecenze immaginabili, e a pagarne le conseguenze sono gli sport cosiddetti minori. Per dire, se oggi a Milano non ci fosse un Armani probabilmente il basket non esisterebbe più: è il tipico caso di un personaggio che ha i quattrini e decide di investirne un po’ in un qualcosa che gli dà lustro e che gli fa piacere. Allora dobbiamo capire una cosa: se noi paghiamo le tasse per rimpinguare le tasche del calcio, dove quello che oggi costa 10 domani costerà 20, allora significa che siamo governati male. E mi meraviglia che i presidenti delle varie federazioni sportive non abbiano la forza di fare fronte comune per dire: “Così non va, le cose devono cambiare”.

Nella tua epopea di organizzatore quale è stata la difficoltà più grande?

SC: Proprio il non potere contare su una base importante di introiti televisivi: se questi vengono a mancare è impossibile fare l’organizzatore in Italia senza perderci soldi di continuo. I nostri governanti ci hanno messo in una situazione in cui tutti i soldi destinati allo sport vanno immancabilmente al football. Ci sono società che hanno garantito alla Lega Calcio un introito minimo di 900 milioni per i diritti TV: devo aggiungere altro? Oltretutto non vogliono capire che in tanti si sono stufati di questo andazzo, ma siamo sempre lì. Hanno ucciso tutti: quando non mi dai niente e so che se organizzo un mondiale di pugilato in Italia ci perdo, per quale motivo devo andare all’estero e fare suonare l’inno di Mameli prima di un match?

Come sei entrato nella boxe?

SC: È una passione che ho avuto fin da bambino, anche perché a quei tempi mio fratello maggiore faceva il pugile (Pino Cherchi, peso piuma negli anni Sessanta, n.d.r.). Poi ho iniziato a andare in palestra anch’io. Fin dagli anni Cinquanta avevo un idolo, che non era un pugile ma Umberto Branchini, il manager più grande di tutti, col quale ho poi lavorato per 15 anni: lui per me è sempre stato il modello da seguire. La passione è l’aspetto che mi ha fatto andare avanti tutti questi anni: se non fosse stato per quella non avrei mai organizzato eventi in Italia, dove è sicuro al 100% che non hai nulla da guadagnarci. Ho avuto i miei idoli anche sul ring: Sandro Mazzinghi, Tonino Puddu, Salvatore Burruni. 

Pro Mazzinghi, quindi contro Benvenuti. La sua sconfitta contro Monzon nel 1970 fu il mio primo shock pugilistico. Pare che il suo manager Amaduzzi volesse evitare Monzon, ma Benvenuti voleva dimostrare di essere un vero campione del mondo.

SC: Senza nulla togliere a Nino, che è stato un grande campione davvero – e non ci piove -, io ero per Mazzinghi. Ma guarda che nessuno aveva scommesso una lira sulla vittoria di Benvenuti contro Monzon nel primo match al Palasport di Roma. Può essere che Nino volesse incontrarlo a tutti i costi, soprattutto nella rivincita di Montecarlo l’anno dopo: se lo dice lui, dobbiamo credergli. Ma prima di quel match Benvenuti aveva perso a Bologna con Chirino, e mi ricordo il clima teso nel quale si arrivò alla rivincita. Detto questo, Nino resta un campione con la C maiuscola.

Segui altri sport?

SC: A me lo sport piace tutto, soprattutto quando ci sono degli italiani in campo. Dallo sci al ciclismo fino alla pallacanestro, anche se lì ci sono troppi stranieri. Il calcio mi piace moderatamente: sono sardo ma vivo a Milano da una vita, quindi il mio cuore batteva per il Cagliari di Gigi Riva e in seconda battuta per l’Inter. Oggi per dirti la verità non guardo nemmeno la Nazionale, o meglio la seguo a spizzichi e bocconi. Questo perché la squadra azzurra rappresenta un po’ tutto il calcio, e in quanto tale assume il ruolo dell’usurpatore. E l’usurpatore non è mai un tipo carino.

Quali sono state la più grande soddisfazione e la maggiore delusione nella tua carriera?

SC: Come soddisfazioni, due a pari merito: il mondiale Loris Stecca-Leonardo Cruz (mondiale supergallo WBA, Milano 22-2-1984, ndr) e Giovanni Parisi-Sammy Fuentes (mondiale superleggeri WBO, Milano 9-3-1996, ndr). Più il secondo del primo, perché al mondiale di Giovanni ci arrivammo in una situazione pesante. Stecca-Cruz fu un avvenimento importantissimo, che ho dovuto organizzare quasi da solo e che ricordo sempre con emozione. E poi ho sempre voluto un gran bene a Loris, che ha sempre dato tutto sul ring. Dal punto di vista della delusione, non saprei: anche nella sconfitta non sono mai stato deluso. Ho sempre cercato di andare avanti, senza fare elucubrazioni.

Da cosa si intuisce se un ragazzo ha il potenziale per diventare un buon pugile professionista?

SC: Dalla testa e dalla convinzione in quello che fa. Sono le basi sulle quali costruire, insieme alla tecnica. Chi conosce la boxe intuisce queste cose, fino a riconoscere in anticipo chi può arrivare a un titolo europeo o a un mondiale. Capirlo non è facile: non a caso il ruolo del manager è più importante nel pugilato che negli altri sport.

Una serie di luoghi comuni sulla boxe. Primo: non ci sono più i pugili di una volta.

SC: Lo sento dire da una vita. Quello che si dice oggi lo si diceva anche alle riunioni degli anni Settanta: ci si ferma su un determinato tipo di pugili e da lì non si esce. Ma anche oggi abbiamo alcuni elementi che avrebbero i requisiti per affrontare i pugili di trenta-quaranta anni fa.

Secondo: i giovani hanno troppi soldi in tasca, non vogliono soffrire ed è per questo che non praticano più il pugilato.

SC: No, no. Vedi quella porta dall’altra parte della strada? Lì c’è una palestra che ha più di 300 iscritti. Mandiamo via decine di persone che ogni settimana vengono da noi perché vogliono fare il pugile. Oggi abbiamo un sacco di ragazzi che riempiono le palestre, e – scusa se mi ripeto – anche di livello sociale elevato, cioè gente che potrebbe fare tranquillamente a meno di venire a prendere dei pugni. La gente è molto più ricettiva di quanto non si creda all’invito di venire in palestra per praticare la boxe, anche come scuola di vita e di rispetto reciproco.

Terzo: se esistesse il nuovo Muhammad Ali qualche manager l’avrebbe già scovato.

SC: Be’, ma non penso proprio che di Ali ne nasca un altro in assoluto. Non dimentichiamo che dopo di lui ne è nato un altro che si chiama Mike Tyson, e che era conosciuto anche da gente che non sapeva chi fosse Ali. E attenzione: al di là della tendenza odierna a sminuirne le doti, Tyson è stato un gran pugile. Non era solo potenza: sapeva dove mettere le mani e portava via i colpi. Sottovalutare il suo livello tecnico è un grosso errore.

Quarto: la potenza è l’ultima dote ad abbandonare un pugile.

SC: Puoi iniziare a non vedere i colpi, puoi diventare sempre più lento, ma la potenza non la perdi mai. Se ce l’hai, ce l’hai per sempre.

Quinto: la boxe non dovrebbe essere praticata dalle donne.

SC: Devo dire che anche a me vedere una ragazza con l’occhio nero o con un taglio al sopracciglio ha sempre fatto una certa impressione, ma non quando ero all’angolo. Mi succedeva dopo, e mi dicevo: “Santo cielo, guarda com’è ridotta”. Oggi ci sono donne che boxano molto bene, e che batterebbero prima del limite pugili maschi di livello anche discreto. Non è solo un fenomeno da baraccone, o un effetto post-Million Dollar Baby. Che tra le altre cose è un film credibile e ben fatto, almeno nella prima metà.

Cos’è che dà quello che chiamiamo “il pugno”?

SC: È un mistero, una cosa che non puoi definire: uno ce l’ha o non ce l’ha. Il pugno è una cosa naturale: vedi un tizio in palestra bello tozzo, che mette centomila colpi, però non ha forza. Teorie, trattati, distribuzione del peso, metodi di allenamento: tutte balle, perché poi arriva un altro, va al sacco, mette la mano, e ti dici: “Madonna, quanto picchia. Chi l’ha impostato?”. Nessuno.

Di’ qualcosa alla platea degli appassionati di pugilato.

SC: Se guardo una partita di calcio faccio un pieno di stress: se in un altro sport succedesse quello che a volte è accaduto negli stadi di serie A, be’, questo altro sport sarebbe già stato abolito. Quindi dico agli appassionati di pugilato di continuare a seguirlo, anche perché c’è un vantaggio non indifferente rispetto al resto: la boxe ti aiuta a rilassarti.

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