Pound for Pound, il podcast della boxe

6 Dicembre 2021 di Glezos

Carmine Loru è decisamente un personaggio fuori dal comune. Appena scoperto il suo podcast pugilistico su YouTube mi ci sono incollato subito: l’acutezza delle analisi, gli incroci con musica, letteratura e altro, e la brillantezza della conduzione rivelano che mai scelta di un nome fu più appropriata: P4P sta per Pound For Pound, anche per quello che promette di restare a lungo il migliore tra i podcast italiani pound for pound, appunto. Carmine mi ha subito risposto dalla sua base operativa a Londra – dove vive e lavora da anni – per un’ intervista in due parti.

Un podcast italiano in diretta dalla perfida Albione. Quando, come e perché?

Carmine Loru: P4P è nato all’inizio di quest’anno, nel giro di pochissimi giorni. Non si direbbe, perché il progetto è partito con una identità ben definita sin dall’inizio. Ma è stato un big bang, una genesi improvvisa nel contesto di una chat con un paio di amici di vecchia data in cui si parla di tutto, ma principalmente di sport, dal calcio al tennis, passando per il pugilato, il ciclismo, il basket. Prima dello scorso Natale non avrei mai pensato di poter fare un podcast e prima dell’inizio della pandemia raramente ne avevo ascoltato uno! Ma con più tempo a disposizione mi sono lasciato prendere la mano con gli ascolti e mi sono innamorato del format. A volte penso che ho semplicemente allargato la platea, che ora è potenzialmente illimitata, o perlomeno non necessariamente limitata ai soli due amici di cui sopra.

Avete avuto un particolare modello di ispirazione?

CL – Sì, tantissimi podcast, specialmente su YouTube. Tanti continuo ad ascoltarli periodicamente: Mike Montero di The Ring Magazine, Hatman, Ade Oladipo, Boxing Squared, Rummy’s Corner e Ring IQ su tutti. Dal prossimo anno vorrei ridurre le uscite e magari avere una sola puntata settimanale, magari il martedì o il mercoledì, in cui si dibatte degli incontri del weekend passato e si fanno analisi e pronostici di quelli del fine settimana a venire. Mi piacerebbe anche fare una cosa a due, ma ancora non so se sul modello di The Fight with Teddy Atlas o di The Boxing Rant, ovvero più sbilanciata su di un solo speaker o più paritaria. In questo formato, da due mesi a questa parte la cosa più bella da seguire su YouTube è Un Round Más, un podcast co-condotto da due personaggi che sul ring sono stati i rivali per antonomasia per la mia generazione, Marco Antonio Barrera e Erik ‘El Terrible’ Morales, che io ho amato alla follia come atleti e che continuo ad amare ora che posso vederli parlare di pugilato ogni giorno o quasi.

Com’è stata la risposta del web sin qui?

CL Non male, direi. Non avevo chissà quali aspettative, in generale, ma credo che per una fetta degli appassionati di boxe italiani P4P sia diventato un punto di riferimento. Con oltre 2,500 follower siamo seguitissimi su Facebook, che in Italia continua ad essere il social di riferimento, ma mi piacerebbe che tutti quelli che commentano attivamente e prendono parte alle discussioni su quella piattaforma si iscrivessero al canale su YouTube e che la discussione si spostasse nella sua interezza sul tubo. Essendo il solo a curare i contenuti, a volte è veramente difficile star dietro a tutti i commenti e a tutte le domande di qua e di là. Su Twitter, per esempio, durante gli incontri – anche nel cuore della notte – c’è la miglior comunità di appassionati al mondo e mi diverte interagire con tutti, quando posso. A volte però voglio solo vedere gli incontri in pace ed avere il cellulare il più lontano possibile dalle mani, ma chiaramente questo non gioca a favore della crescita del canale.

P4P ha un evidente rapporto/incrocio con l’ immaginario musicale.

CL – Vivo e lavoro nel mondo della musica da oltre dieci anni, quindi era impossibile che non entrasse a far parte del podcast in qualche modo. Adoro la nostra sigla, che è stata composta dal mio amico e collega Stefano (https://www.steftahlia.com/), ma credo che la connessione più evidente con l’immaginario musicale sia nella scelta del bianco&nero nelle immagini e dei colori verde e rosa nelle scritte delle nostre copertine, che chiaramente richiamano la cover di London Calling dei Clash, che a sua volta si ispirava all’ album d’esordio di Elvis Presley del 1956. Avrai notato come nel corso delle puntate siano scappate citazioni di Black Sabbath, The Replacements, Mark Kozelek e altri, o mi avrai visto indossare delle magliette degli Slint, dei Dinosaur Jr o dei Mudhoney. Ogni tanto mi è scappata anche qualche citazione letteraria e cinematografica, da Akira Kurosawa a Juho Kuosmanen, ma diciamo che la linea guida del podcast è quella della totale libertà e della massima inclusività pop. Parafrasando quello che il grandissimo C. L. R. James ha detto a proposito del cricket: cosa sanno del pugilato quelli che conoscono solo il pugilato?

Il punto forte e il punto debole della boxe nel 2021.

CL – Il punto forte è che il movimento pugilistico non è mai stato così diffuso geograficamente al di là dei confini degli Stati Uniti che, per esempio, a Tokyo non hanno raccolto nemmeno una medaglia d’oro, a differenza del Brasile e della Turchia. Tempo fa abbiamo dedicato un’intera puntata (#27) all’infornata di fenomeni uzbeki venuti fuori dalle Olimpiadi di Rio che hanno iniziato a farsi notare anche tra i professionisti, ma non sono passati molti giorni da quando un australiano è andato a New York a prendersi quasi tutte le cinture dei pesi leggeri, per avere un’idea di quel che voglio dire. Senza considerare che, se l’interminabile era dei fratelli Klitschko ci aveva abituato a veder sventolare la bandiera ucraina sulla classe regina, forse mai come ora la Top 10 dei pesi massimi è stata dominata da talenti inglesi. Giappone, Filippine, Lettonia, Kazakistan, Congo, Argentina, Scozia, persino la Spagna e la Francia possono vantare dei campioni del mondo al momento. Il punto debole resta la difficoltà della fruizione dovuta alla permanenza del modello pay-per-view, che mostra la corda da anni ma continua a resistere, e alla frammentazione della programmazione mediatica, che poi è legata alla frammentazione degli enti promozionali, delle sigle alfabetiche e via dicendo. E’ un universo atomizzato; è difficile per qualunque fan orientarsi, e per giunta è costoso.

Dal tuo punto di osservazione londinese che impressioni hai del momento del pugilato italiano?

CL – Mi sembra di percepire che la boxe sia diventata molto popolare nell’ambito del fitness e ho letto che il numero dei praticanti a livello dilettantistico è in continua crescita da diversi anni. La medaglia olimpica di Irma Testa ha messo nel radar dei media generalisti il pugilato femminile e, seppur con le sue comparsate televisive più che con le sue gesta sul ring, Daniele Scardina ha ricordato al paese che i pugili italiani non si sono estinti del tutto, ma la situazione del professionismo è piuttosto drammatica. Applaudo la scelta di Michael Magnesi di approdare negli States, una decisione che spero possa aiutarlo a togliersi delle soddisfazioni. È giovane, forte, probabilmente il nostro migliore talento, e credo che, se ben guidato nella sua crescita come lo è stato sino ad ora, andrà a meritarsi una chance mondiale tra non molto.

Il match della tua vita.

CL – Questa è una domanda veramente difficile. Ce ne sono tanti, per vari motivi. Ma – essendo britannico d’adozione oltre che sardo – mi piace risponderti con la vittoria di Joe Calzaghe su Jeff Lacy del 2006. Il nome di Lacy non dice molto oggi, ma al tempo era considerato una sorta di Mike Tyson ed era favoritissimo su un Calzaghe che aveva difeso la cintura WBO un milione di volte, ma ancora lasciava dei dubbi a molti esperti. Dopo un inizio abbastanza difficile e piuttosto caotico fu in sostanza un pestaggio a senso unico. Fu la svolta nella carriera di Joe, ma anche in quella del povero Lacy, che dopo quella sconfitta non recuperò mai più la sua verve. Il padre ed allenatore di Joe, Enzo, proveniva da una piccola frazione alla periferia di Sassari che lasciò per vagabondare per l’Europa come musicista di strada, prima di ritrovarsi in Galles. La sua vita è stata un’avventura che meriterebbe di essere raccontata in un libro, senza aver bisogno di abbellimenti o di essere romanzata, eppure nonostante la sua personalità vulcanica non si è mai messo davanti al figlio, non gli ha mai rubato la scena. Ho ripensato a lui dopo aver visto la patetica performance di Teofimo Sr prima, durante e dopo l’incontro tra suo figlio e George Kambosos Jr la scorsa settimana. Il signor Calzaghe era di tutt’altra pasta. Un grande essere umano prima ancora che un grande uomo di boxe.

Come nasce la tua notevolissima competenza sull’argomento?

CL – Mi lusinghi. Sono solo uno studente di questo sport, in realtà, e la mia competenza è molto limitata. Nella sua costruzione però mi torna utile la mia formazione accademica da storico, in un certo senso. Sono laureato in Storia dell’Arte Greca e Romana all’Università di Firenze, ma anche se ho totalmente abbandonato il settore subito dopo la fine dei miei studi, questo mi ha lasciato delle basi fondamentali, principalmente riguardo all’approvvigionamento delle informazioni e al trattamento delle fonti. Due vantaggi non da poco nel mondo d’oggi, dove la qualità delle notizie può essere ingannevole e la quantità soverchiante.

Cosa faresti se ti eleggessero presidente di una delle sigle mondiali?

CL – Ti dò una risposta scontata: farei sparire tutte le cinture che non siano quella di campione del mondo. Interim, Gold, Super, Regular, Intercontinental. È tutta spazzatura. Ormai non si vede quasi più un match in cui non ci sia una qualche cintura. Nella puntata #6 spiegai come, non combattendo con la stessa frequenza con cui si faceva in passato, sia quasi necessario che ci siano più sigle nel pugilato moderno, perché solo in questo modo si può garantire a dei pugili di talento una chance mondiale, ma il proliferare delle cinture all’interno di una stessa sigla è veramente nauseabondo. In questi ultimi anni, dopo il terribile scandalo degli anni Novanta, l’IBF è stata la sigla che ha mostrato maggior gusto in questo campo e anche una maggiore trasparenza nei suoi ranking e nella gestione delle difese obbligatorie. Ora si vocifera che alcuni manager della WBA siano di recente passati nelle sue fila e questa non è una bella notizia, sinceramente. Lavorerei anche nella direzione di una uniformità decisionale con le altre sigle alfabetiche, anche se in questo settore si sono fatti dei passi avanti se pensiamo al numero crescente di unificazioni al quale stiamo assistendo recentemente. Solo quest’anno abbiamo avuto l’incoronazione di due campioni indiscussi, Canelo nei supermedi e Josh Taylor nei superleggeri, e ne avremmo avuto un terzo se tra Jermell Charlo e Brian Brian Castaño non fosse finita con un pareggio molto controverso.

Come si impara a ‘vedere’ davvero un match?

CL – Sembrerà scontato, ma si impara guardandone tanti. E riguardandoli nuovamente. Io sono uno di quelli che arriva al match sempre preparato sulle qualità dei due avversari, perché credo che questo aiuti nella lettura dell’azione. In linea di principio non amo entrare in un museo senza sapere se mi troverò davanti dei primitivi fiamminghi o dei pittori della scuola senese. La preparazione e la conoscenza mi permettono di poter apprezzare i dettagli e di avere una maggiore consapevolezza di quello che succede. È una cosa che secondo me vale anche per i pugili. Ci sono quelli completamente concentrati sull’azione e quelli che hanno una visione periferica tanto ampia da poter interagire con l’esterno anche nel bel mezzo della battaglia. Non so se hai notato Terence Crawford chiedere a qualcuno fuori dal ring se Shawn Porter fosse avanti sui cartellini nel break della nona ripresa del match del mese scorso? Il Tyson Fury del secondo incontro contro Wilder era talmente all’erta che anche nella conferenza stampa post-match, dopo aver vinto, ebbe la freddezza di rifiutare una bottiglietta d’acqua che non proveniva direttamente dal suo team, per evitare sorprese ai controlli antidoping. È ben nota la storia di Floyd Mayweather che, nel pieno dell’azione sul ring durante il match contro il portoricano Henry Bruseles, rispose al commentatore della HBO che chiedeva a Roy Jones Jr su chi avrebbe scommesso in una semifinale della NFL. Quando si arriva preparati ad un incontro ci si può concentrare anche su queste cose. E si possono capire meglio gli uomini, oltre che i pugili.

(fine della prima parte)

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Venendo alla stretta attualità, sabato notte quasi tutto come da copione al MGM Grand di Las Vegas. Devin ‘The Dream’ Haney (27-0) ha conservato il titolo WBC dei pesi medi battendo comodamente ai punti il non troppo bellicoso – nonostante le premesse – Joseph ‘Jo Jo’ Diaz (32-2) in dodici riprese nelle quali è successo poco: il jab del campione in carica, la sua buona mobilità di piedi e tronco contro qualche colpo piazzato qua è là da Jo Jo nelle riprese finali, a cui non ha fatto seguito un raddoppio che fosse uno. Patetica l’esultanza al gong finale di Diaz (largamente sotto nel cartellino di tutti i giudici), quasi a rincorrere il sogno dell’annunciato – nelle sue intenzioni – showdown col perplesso George Ferocious Kambosos, presente al MGM e per nulla impressionato dal match. Dall’ altra parte, il compunto display mostrato da Haney non rafforza il suo appeal pay per view. E questo – si sa – è il vero peccato mortale.

Ben altro deve aver avuto per la testa ieri notte Floyd Mayweather al termine della difesa del titolo dei leggeri WBA da parte del suo protetto Gervonta ‘Tank’ Davis (26-0) dall’assalto di Isaac ‘Pitbull’ Cruz (22-2-1). Sostituto last minute made in Mexico del pericoloso Rolly Romero, dopo il caso ‘Mee too’ dell’ ex amica che ha fermato momentaneamente la carriera di quest’ultimo, Cruz crea più di un problema a Gervonta pressandolo fin dal primo gong, tagliandogli il ring di continuo e scaricandogli addosso bordate al corpo. Davis schiva, contra e piazza qualche combinazione ma ci mette qualche round a inquadrare lo sfidante, che va spesso a vuoto e scivola a terra più volte ma che lo induce una condotta prudente. La guardia un po’ alla peek-a-boo a gomiti larghi di Cruz darebbe spazio ai celebrati uppercut di Davis, che però partono con parsimonia. Nel decimo round il gancio sinistro di Pitbull va a segno, ed è un finale incerto non tanto per il pubblico dello Staples Center di Los Angeles, ma per Showtime e i suoi futuri eventi pay-per-view. La vittoria ai punti c’è tutta, accolta da Gervonta con l’onore delle armi concesso a Cruz (“Ha fatto un gran incontro, stanotte è nata una stella”). Ma l’ espressione cupa di Floyd Mayweather a fine match la dice lunga.

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