Supersex

12 Aprile 2024 di Stefano Olivari

La cosa migliore di Supersex è il titolo, per tutto ciò che evoca a partire dal leggendario fotoromanzo, di nascita francese ma editorialmente milanesissimo, su cui tutti i ragazzi della nostra generazione si sono formati e informati. Arrivare alla fine dei 7 episodi della serie sulla vita di Rocco Siffredi, disponibile su Netflix, è stato davvero faticoso nonostante l’ottimo materiale a disposizione: un personaggio notissimo ma poco raccontato al di là delle sue opere, il cinema porno che ha il suo fascino sia per chi lo ama sia per chi lo detesta, la provincia italiana degli anni Ottanta e Novanta, quel mondo della notte un po’ squallido che sarebbe stato ridimensionato dall’ugualmente squallido web.

Per essere sintetici, come ci piace essere: Supersex non è brutto, ma è noioso. Capiamo l’esigenza produttiva si ammortizzare i costi e avere 7 ore di film invece che 2, ma a noi spettatori cosa importa? Sono interessanti le parti sulla gioventù in Abruzzo, in una Ortona dove gli zingari erano i maghrebini di oggi, in mezzo a vicende familiari per i Tano (vero cognome di Siffredi) molto tristi. Bello anche il racconto del rapporto del piccolo Rocco con il fratello Tommaso, idolo assoluto anche perché fidanzato con Lucia, la ragazza dei sogni di tutti. Un rapporto malato, che si trascina dal paese a Parigi, con i protagonisti ormai cresciuti ed interpretati da un credibile Alessandro Borghi (Rocco), da una seriosa Jasmine Trinca e da un Adriano Giannini bravo ma sempre oltre il confine dell’overacting.

Da Parigi in poi tutto si trascina, con qualche guizzo come l’incontro decisivo con Gabriel Pontello, appunto il Supersex dell’Ifix Tchen Tchen che tutti abbiamo amato, ma anche tante, troppe, macchiette. Da Schicchi a Moana Pozzi, dall’amico gay Franco Caracciolo al malavitoso Jean-Claude ai frequentatori di night e club privé, per non parlare di quelli di Pigalle. Non c’è nemmeno qualcosa di eccitante, solo una sfilata di corpi anonimi, ed è qui che volevamo arrivare: perché pur apprezzando i film porno fin dai tempi delle prime VHS, ci è sempre risultato incomprensibile il divismo del porno.

Quello maschile, etero o gay che sia, ma anche quello femminile. A qualcuno è mai fregato qualcosa del nome dell’attrice o del suo curriculum? Anzi, il volto noto spesso deprime, ammoscia. Qualche cinema porno in vita nostra l’abbiamo visto, soprattutto il Magenta di via Sanzio e il Tiziano di viale Cassiodoro a Milano, senza dimenticare il bellissimo Lyceum di Varese (ci abbiamo preso il caffè poco tempo fa, è diventato un bar per famiglie) ed i tanti che ci si trovava davanti all’improvviso, senza cercarli: cinque anni fa ci è capitato qualcosa del genere a Berna.

Ecco, a occhio allo 0% dei frequentatori fregava zero se ci fossero Ron Jeremy, John Holmes o Rocco Siffredi, percentuale che saliva all’1% nel caso della protagonista femminile. Eppure anche il porno è stato capace di creare un divismo, sia pure di Serie B, e Tano-Siffredi aveva ed ha qualcosa più degli altri: per questo è diventato un personaggio pop, apprezzato dalle donne ma anche dagli uomini abbonati a DAZN. Ha qualcosa più degli altri non come centimetri, ma come conflitti irrisolti, rabbia, malinconia. È qualcosa in più di uno stallone peccatore che l’amore per la moglie Rozsa ha redento. Occasione persa.

stefano@indiscreto.net

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