Boxe

La rivoluzione di Cuba

Glezos 11/04/2022

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Prima che un intenso weekend si abbattesse sulla comunità in guantoni è esplosa la bomba, una di quelle da pesce d’aprile: Cuba, per molti il paese di Teofilo Stevenson prima ancora che di Fidel, apre al professionismo. Falso? Vero, vero. In realtà nel passato qualche minima concessione c’ era stata – Ugas o non Ugas -, vedi la partecipazione alle World Series of Boxing (dal 2014 al 2018). Poi il nulla. Adesso la cosa sembra farsi seria, a partire dal primo accordo già sottoscritto tra la federazione cubana e la messicana Golden Ring per una prima serie di incontri che andranno in scena già a partire dal mese prossimo. Alberto Puig, presidente federale cubano, è soddisfatto e ottimista: “Ci abbiamo lavorato per più di tre anni. Abbiamo firmato un contratto che riflette in pieno innanzitutto la filosofia dello sport cubano, prima ancora che l’ inserimento dei nostri pugili nella boxe professionistica”.  E giù commenti, rimambranze e elucubrazioni da parte di ogni entità giornalistico-sportiva che si rispetti o meno: i gloriosi anni trenta, quando a Cuba il pugilato era professionistico; Stevenson e i cinque milioni di dollari per affrontare l’Ali di metà anni Settanta (che avrebbe vinto comodamente, ma questa è un’ altra faccenda); l’ epopea di Josè Napoles e il suo ‘tradimento’ messicano (corsi e ricorsi); Felix Savon, per arrivare a Julio Cesar La Cruz e a Emmanuel Reyes, quest’ ultimo convertitosi sotto la bandiera spagnola ma impaziente di urlare il suo celebre “Patria o muerte! Venceremos!” alle Olimpiadi di Tokyo. Aspettative? Ovviamente altissime, come la fame cannibalesca di qualsiasi cosa smuova le acque di un universo pugilistico che nonostante un’ attualità spesso di alto livello è sempre a rischio di imbarazzi come il ritorno di Tyson, le sfide-pagliacciata coi grandi delle MMA o un altro comeback da pensione di Floyd Maywather o Manny Pacquiao, fate voi. Staremo a vedere cosa succede, se qualcosa succederà. Al momento, davanti alle celebrazioni di Kid Chocolate a Cuba negli anni Trenta (che nessuno di noi ha mai visto) mi consolo con Chocolatito: sempre cacao è, e per giunta di marca non troppo inferiore.

Nel frattempo sabato scorso alla Super Arena in Saitama (Giappone) è tornato Triple G, GGG, o l’ unico e solo Gennadiy Golovkin (42-1-1), che mancava dai ring da quasi un anno e mezzo. Ryota Murata (16-3) ai più non si presenta come avversario irresistibile nonostante le avvisaglie degli osservatori più attenti, a ragione. Il giapponese conduce un match di coraggio e sostanza di fronte al martello kazako, che fatica non poco a trovare passo e combinazioni, complice un po’ di evidente ruggine e una prima parte del match più problematica del previsto. Il match è uno di quelli dal sapore old school, con l’ effetto alla slugging fest di due contendenti piantati uno di fronte all’altro a ignorare piedi e gambe. Nonostante l’ assenza di movimenti di tronco di Murata, GGG è a giri bassi e a tratti pare quasi a corto di fiato. Supera l’empasse dalla sesta ripresa, e inizia a piazzare serie chiuse da montanti invariabilmente a segno che chiudono l’incontro al nono round, con l’ abile e coraggiosissimo Ryota in crisi e il contemporaneo lancio della spugna da parte del suo angolo. Per lo sfidante gli applausi dell’ educatissimo pubblico del Sol Levante e una buona sconfitta (sempre ammesso che esistano), che non intacca nulla se non un numero nel record; per Triple G una difesa delle cinture  dei medi WBA e IBF tra sprazzi luminosi e qualche ombra. Magari in attesa di un Canelo Alvarez in china discendente e di una terza minestra riscaldata tra i due.

Lo confesso: la voglia di rivedere Ryan Garcia (22-0) sul ring dell’Alamodome di San Antonio in Texas sabato notte era parecchia. Certo il suo ultimo incontro risaliva a fine novembre 2020, anche a causa di una serie industriale di casini personali. D’accordo, zero tituli in palio, con l’appeal nullo che spesso questo comporta. Ma un avversario con le credenziali di Emmanuel Tagoe (32-2) poneva più di qualche domanda sulle attuali ambizioni mondiali di King Ry, per cui l’attesa si annunciava giustificata. Be’, mai come in questo caso ci siamo sbagliati, o meglio eravamo in pochi a prevedere le reali proporzioni di quello che avremmo visto, ovvero: 1) un match senza storia, con Garcia straripante dal primo all’ ultimo round e un Tagoe dalla tattica, approccio e movenze oltre il limite dell’ imbarazzante; b) un dominio totale andato per le lunghissime (conclusione ai punti, tutti i round per Garcia), contrariamente alle previsioni che vedevano una chiusura prima del limite a favore di uno o dell’ altro. Chimera, dolce illusione sei tu: troppo il divario crudelmente messo in mostra, troppa la supremazia di un Ryan Garcia tirato a lucido, velocissimo e preciso nonostante la guardia spesso troppo bassa, con unico difetto l’assenza del colpo risolutore. Domanda d’obbligo in questi casi: merito di Garcia o pochezza di Tagoe? La risposta ai poster che annunceranno il prossimo mondiale di King Ry, contro un avversario sicuramente più pericoloso.

A chiudere il weekend il bel match andato in scena sabato scorso all’Hangar di Costa Mesa in California tra la campionessa mondiale dei superpiuma WBO e IBF Mikaela Mayer (17-0) e la sfidante Jennifer Han (18-5). Nonostante le trentotto primavere sulle spalle quest’ultima si rivelava avversario ostico, con mento robusto e un coraggio a sfiorare l’ incoscienza. Dopo una lieve ferita all’occhio sinistro causata da una testata a inizio match, la Mayer procedeva alla demolizione sistematica della Han, che subiva – anche con qualche ferita – ma che riusciva un po’ a sorpresa a mantenere una mobilità che le regalava l’onorevole – e netta – sconfitta ai punti. Ora per Mikaela Mayer l’asticella si potrebbe alzare solo con un avversario dal grande nome, ammesso che ci si riesca a sedere attorno a un tavolo e a mettersi d’ accordo davvero.

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