La gioia fa parecchio rumore, la vita fino a Roma-Liverpool

8 Aprile 2021 di Simone Sacco

Una intervista con Sandro Bonvissuto, romanziere per vocazione e cameriere romano nella vita reale («Anche se è un anno ormai che sto in cassa integrazione per ‘sto Covid…»), rappresenta uno di quei rari casi in cui riteniamo che il formato podcast superi di gran lunga il valore della parola scritta. Praticamente impossibile riprodurre coi tasti di un computer lo slang fieramente testaccino di uno come Bonvissuto, la sua schietta romanità come ragione di vita, quindi non ci proviamo neanche. Più facile, nettamente più facile perdersi nella prosa de La gioia fa parecchio rumore, libro uscito per Einaudi circa un anno fa che parla di tante belle cose che piacciono ai lettori di Indiscreto: l’Italia a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, il calcio ruspante che si giocava a quei tempi, l’abnorme epicità di quelle vicende ancora prive del fardello dello storytelling.

E poi il “what if” – il cosa sarebbe successo se – delle vicende sportive più dolorose di cui si parla tuttora con grande cognizione di causa e romanticismo languido degno di un disco degli Hothouse Flowers (per chi ancora se li ricorda). Bonvissuto, di suo, preferisce terminare il suo bel romanzo cinque minuti prima dell’inizio di Roma-Liverpool del 30 maggio 1984 esattamente come Sting, anni fa, troncò la sua autobiografia un attimo prima che i Police firmassero il loro primo contratto major con la A&M. La gioa, d’altronde, è nata per fare casino. Perché rovinarla irrimediabilmente facendola diventare adulta?

Perché intitolare il tuo romanzo La gioia fa parecchio rumore?

Perché questo è un libro che parla spudoratamente d’amore. Amore puro. L’amore totalizzante di un ragazzino, cresciuto nei primi anni Ottanta, che un giorno, per tradizione familiare, incontra questa cosa assoluta e devastante chiamata AS Roma. E da allora non sarà più lo stesso.

Diversi critici hanno tirato in ballo l’inevitabile paragone con il Nick Hornby di Febbre a 90. Anche se a me l’amore del tuo ragazzino/alter ego ha ricordato di più la passione bruciante che un suo coetaneo americano poteva avere per l’heavy metal popolare di quegli anni. Una roba tipo i Mötley Crüe al posto di Pruzzo o i Def Leppard a fare le veci di Righetti…

Guarda, quello con Hornby, pur rispettandolo, mi sembra un parallelismo poco calzante. Nel senso che la filosofia dei britannici si forma al pub, la nostra nell’ambiente casalingo. Direttamente tra la cucina e il salotto. Loro negli anni  Ottanta avevano Margaret Thatcher a Downing Street, io ce l’avevo a casa ventiquattro ore al giorno! (ride). Le mie due Lady di Ferro erano mia madre e mia nonna, sempre pronte a giudicarmi colpevole a priori. Mia nonna, per dire, mi puntava quel suo ditino che stava a sottintendere “viene un po’ qua”… Altro che il processo per direttissima del Taylor Act!

Riassumendo per chi vorrà un giorno leggere il tuo libro…

‘La gioia fa parecchio rumore’ è un romanzo sull’appartenenza e sui valori forti della famiglia tradizionale italiana anni Settanta. Un libro che, se lo traduci in norvegese, un abitante di Oslo penserà di aver acquistato un astruso testo di fantascienza! (ride). Gli italiani – e i romani in particolare – invece sanno bene di cosa sto parlando. Ah, segnati questa: la mia non è affatto un’opera sul calcio. Anche se ci ho piazzato Paulo Roberto Falcao in copertina e si parla di quei cinque anni pazzeschi, dal 1979 al 1984, che portarono la Roma dall’orlo della serie B alla finale maledetta di Coppa Campioni. Io di calcio non ne so un cazzo: me ne intendo solo della Maggica.

So che in tempi recenti sei stato a Trigoria e non ci hai trovato un bel clima, vero?

Sì, e non solo da quelle parti dato che la AS Roma possiede anche degli uffici commerciali al EUR. Dio ce ne scampi. Che quei posti fossero simili ad una banca ci può anche stare, ma Trigoria no. Trigoria è casa mia e di ogni tifoso romanista. Tra quei prati verdi dovrei respirare aria buona e invece è tutto un coacervo di radioline, divieti, pass, guardie del corpo cazzute, parcheggi per le Porsche. Lì non puoi fare quello, là non puoi fare quell’altro: du palle, fratè! E poi il silenzio. Un silenzio terribile e angosciante. Il silenzio della famiglia Friedkin.

Inevitabile per una squadra-azienda che, a fine mese, stacca oltre quattrocento stipendi. Da Dzeko all’ultimo dei consulenti esterni…

Ecco perché il 99% dei nostri coetanei fa fatica a venire a patti col calcio moderno. Senza stare a scomodare certi totem del passato come Dino Viola (il più grande in assoluto) o un papà-padrone come Franco Sensi, a vedere alcune mosse d’immagine dei Friedkin (Dan e il figlio Ryan, ndr) viene quasi da rimpiangere Ciarrapico! La Roma non si merita tutto questo freddo, il ricatto di Cristante capitano o quel silenzio penoso di cui parlavamo prima.

Anche perché, a pensarci bene, le ultime clamorose dimostrazioni d’affetto popolare le si sono vissute proprio all’Olimpico e non altrove (dove magari hanno pure fischiato Maldini durante il giro di campo) con gli addii al calcio di Totti e De Rossi. Oppure la clamorosa vittoria sul Barcellona in Champions League…

L’addio di Totti fu come il Papa a Manila. Un evento che si è compreso di più all’estero che nei nostri angusti confini. Quello di De Rossi, invece, è stato il semplice addio di un capitano. Un grande capitano, ok, ma quello Daniele era: un centrocampista normale che faceva con la lingua quello che Francesco combinava coi piedi. Dalla bocca di De Rossi stronzate non ne sono mai uscite. Parlava da leader, da grande romanista. Mai una sillaba sprecata o un fraintendimento nei confronti di una storia giallorossa che doveva restare, in ogni caso, più grande di lui.

L’hai letta l’autobiografia di Sebino Nela? Te lo chiedo perché Hulk è stato l’ultimo in ordine di tempo a riportarci in quell’atmosfera fatata di cui hai scritto anche tu. Alla Roma ruggente dello scudetto del 1983…

Non ancora, ma Sebino è un senatore: che glie’ voi dì? Io ad uno come Nela gli porterei a spasso il cane, però mi hanno riferito che nel suo libro parla in termini poco cortesi di un certo Falcao…

Esatto. Lo critica in occasione del famigerato rigore non tirato contro il Liverpool in occasione della finale di Coppa dei Campioni del 30 maggio del 1984. La tesi di Nela: un leader si presenta comunque sul dischetto. Poi, se segna o meno, quello è un altro paio di maniche…

Ok, però a giocare quella finalissima ci ha portato Falcao, mica Nela. Mi spiego meglio: è stato il brasiliano, fin dal suo arrivo a Fiumicino quel famoso 10 agosto del 1980, a far cambiare di passo una Roma che, ai tempi, la parola “scudetto” manco la poteva pronunciare. Un giornalista, quel giorno, gli chiese se avrebbe vinto il derby e lui serafico: «Battere la Lazio? Veramente io sarei venuto qui per vincere il campionato…». Quando si dice la mentalità giusta! No, mi spiace per Nela o per chi tuttora contesta il Divino per via di quel penalty, ma Falcao resta il giocatore più grande che abbia mai vestito questi colori.

Parli di giocatori stranieri o… in assoluto?

La vicenda-Totti fa storia a sé. Paulo Roberto Falcao ha reso la Roma grandissima in un arco temporale di appena quattro anni e mezzo. Il Capitano ha giocato qualcosa come ventiquattro anni. Qualche partita sbagliata puoi anche concedertela in un lasso di tempo così lungo. Falcao no: lui è stato decisivo in ogni big match di quel magico decennio. Pure Roma-Liverpool, certo. Non ho mai sopportato l’odioso luogo comune che sia stato il cinque brasiliano a farci perdere una coppa che ci avrebbe fatto diventare grande come il Milan di Berlusconi con cinque stagioni d’anticipo. Al massimo ce la fecero perdere Conti o Graziani sbagliando i loro rispettivi rigori. E stiamo parlando di due che erano diventati campioni del mondo un paio d’anni prima, mica di ragazzini inesperti della Primavera.

E poi un bel giorno ricevi una certa telefonata…

L’anno scorso rispondo ad un numero sconosciuto e all’altro capo c’era lui: il Divino. Ti giuro che ad un certo punto mi sembrava di stare al cellulare con Mazinga! (ride). Non so se rendo l’idea: sto a parlà con l’Ottavo Re de Roma! Falcao mi aveva chiamato perché era rimasto colpito dal mio libro e dalla sua foto in copertina. Dopo quaranta minuti di conversazione ho dovuto chiederglielo: «A’ Paulo, ma quel benedetto rigore?». E lui: «Sandro, col Liverpool giocai solo grazie ad una infiltrazione medica. La sanno tutti, a Roma, ‘sta storia. La puntura aveva un effetto di 90 minuti e quella partita ne durò più di 120. Al momento dei rigori non mi sentivo più la gamba…». Poi mi aggiunse che lui in lista si era comunque messo. E il Barone (Liedholm. Ndr), scaramanticamente, avrebbe puntato sulla sua verve solo se si fosse andati ad oltranza. Falcao sarebbe stato il sesto rigorista, subito dopo Chierico.

Tu quella notte eri sugli spalti dell’Olimpico?

Sì. E dato che il mio compleanno cade il primo giugno, i miei quattordici anni non li ho mai festeggiati: per via della Roma e della sconfitta col Liverpool ho gettato la torta dalla finestra e sono passato direttamente dai tredici ai quindici! (ride). Triste postilla di una partita di cui si parlerà anche tra un secolo. Perché Roma-Liverpool del 30 maggio ’84 fu una tragedia greca a tutti gli effetti. A me, ad esempio, ha sempre ricordato un’opera di Sofocle o di Euripide.

Tra i tifosi del Torino e della Roma chi ha sofferto di più secondo te?

Loro perché la tifoseria granata ha patito delle vere tragedie (umane, non solo sportive) mitigate però dal conforto dell’Italia. Dopo lo schianto di Superga l’intero Paese si strinse attorno al Torino e queste sono cose che non si dimenticano. Mio padre me lo ripeteva sempre: «A’ Sandro, quelli del Toro sono gli unici che stanno peggio de noi. Portaglie rispetto». La Roma, da questo punto di vista, un certo tipo di affetto – chiamiamola simpatia verso i perdenti – non l’ha mai conosciuto. Anzi. Quanno arrivamo secondi noi, gli artri stanno tutti a festeggià! E la Roma, credimi, è la squadra che è arrivata ad un passo della meta più volte non solo nella storia del calcio, ma dell’intero sport… (riflette). Sai, se vinci trenta scudetti magari nel corso della storia arrivi secondo venti volte. E ce sta, ne hai pur sempre venti trenta, no? Solo ‘sta squadra ha vinto tre triangolini tricolori ed è arrivata seconda qualcosa come quindici o sedici volte. Una media che mi manda ai matti. Mi stupisco che La Settimana Enigmistica non ne abbia mai scritto nella sua rubrica ‘Strano, ma vero’…

Senti, tra Speravo de morì prima e Ultrà (il film cult del 1990 diretto da Ricky Tognazzi con Claudio Amendola nei panni di Principe) il tuo cuore per cosa batte?

Mah, Speravo de morì primaè una bella favola. Divertente, molto divertente. È la versione del Capitano di una vicenda decisamente più complessa. ‘Ultrà’ andrebbe rivisto solo perché ha il merito di raccontare le vicende di una Curva unica: la Sud. La Curva, all’epoca, più grande d’Italia e d’Europa. Mi ricordo delle trasferte giallorosse a Torino, Genova o Pisa di trentamila persone; e a quei tempi Italo mica esisteva… Il mio preferito però resta ‘Cinque a zero’, un film del 1932 diretto da Mario Bonnard e dedicato alla goleada che l’AS Roma, nata appena quattro anni prima, inflisse alla Juventus il 15 marzo del 1931. Nella pellicola ci recitano veri giocatori romanisti come Ferraris IV, Fulvio Bernardini, Fasanelli, Volk ecc. Insomma, un vero tributo a quello spirito lì, verace e “testaccino” fino al midollo. Le nuove generazioni, nel caso, prendano appunti.

Ci siamo forse dimenticati qualcuno o qualcosa?

Agostino Di Bartolomei. Il mio capitano silenzioso. L’unico mio capitano. Di Ago non parlo quasi mai, ma ogni volta che ci penso mi vengono in mente le parole illuminanti di mio padre: «Sandro, guardalo bene: quell’uomo ha una tempra tale che non si inginocchia mai. Quando lo fa vuol dire che è successo qualcosa di veramente clamoroso…». Come quando Ago segnò contro l’Avellino e ci cucì mezzo scudetto sulla maglia. Hai presente quella foto di lui con le ginocchia sull’erba dell’Olimpico, le braccia alzate al cielo e Carlo Ancelotti che se lo mangia con gli occhi? Friedkin, prendi appunti.

Il tuo nuovo libro… quando?

Presto. Nel senso che tra ‘Dentro’, il mio debutto del 2012, e ‘La gioia fa parecchio rumore’ sono passati otto anni, effettivamente troppi. L’Einaudi mi scuoierebbe vivo se mi riprendessi una pausa del genere. Però, anche nel mio nuovo romanzo, ci voglio arrivare coi sentimenti belli testati. Parlerà, come questo, di vicende estremamente popolari: l’unico ambiente che conosco a fondo e di cui potrei mai scrivere. Alle feste mondane sulle terrazze con gli scrittori italiani che si sentono tutti dei novelli Céline annatece voi. Io c’ho da lavorà!

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