Musica
We are the world
Indiscreto 07/03/2025

Esattamente 40 anni fa, il 7 marzo 1985, usciva We are the world, la canzone che il supergruppo USA for Africa aveva inciso per fare beneficenza all’Etiopia e non solo all’Etiopia ma soprattutto per dare una risposta americana alla britannica Do they know it’s Christmas? Su queste due canzoni parole definitive sono state spese da Bob Geldof, artefice delle operazioni Band Aid e Live Aid ma presente anche in USA for Africa: “Sono responsabile delle due più brutte canzoni della storia. L’altra è We are the world“. Siccome chi ascolta musica non è obbligato a essere diplomato al Conservatorio, così come chi guarda una partita può farlo senza essere passato da Coverciano, si può dire che le due canzoni emozionarono ed emozionano ancora oggi, quella britannica un po’ di più grazie al genio incommensurabile di Midge Ure, mentre per We are the world l’idea di Michael Jackson e Lionel Richie fu più convenzionale, come se oggi chiedessimo a Suno di scriverci un inno soft alla fratellanza e contro la fame nel mondo.
Di questa canzone abbiamo parlato tante volte, anche in occasione dell’uscita del documentario We are the world: la notte che ha cambiato il pop, rimane pochissimo da dire. Se non ribadire che per la maggior parte fu un prodotto di Michael Jackson, perché la melodia grezza fu sì ideata insieme a Richie a casa Jackson, allora a Encino, ma poi la struttura della canzone, la strumentazione e i testi furono quasi totalmente del re del pop. Riguardando il celeberrimo video è poi facile notare gli americani assenti, due giganteschi rispetto alla loro popolarità dell’epoca: Madonna, che non piaceva a Quincy Jones e che di fatto non fu invitata, e soprattutto Prince, che si tentò fino all’ultimo di convincere, con Jackson che aveva addirittura previsto una parte con un loro duetto. Fu messa in mezzo anche Sheila E., presente in We are the world, purissimo prodotto di Prince (le scrisse quasi tutti i primi tre album), gli fu proposto anche di registrare a parte, ma niente. Prince non era contrario ai fini benefici dell’operazione, che nel corso degli anni ha raccolto, attualizzati, quasi 300 milioni di dollari, al punto che diede una sua canzone per We are the world inteso come album, ma non gli andava di mescolarsi agli altri e non lo fece.
Se Madonna e Prince vivevano nel loro mondo e non fecero niente per fare parte del progetto, diversamente andò con John Denver, che cercò di autoinvitarsi ma fu respinto con la motivazione pretestuosa che il folk e a maggior ragione il country erano generi vecchi. Ma allora Dylan? E Willie Nelson? Di sicuro l’operazione americana ha sempre avuto meno calore di Do they know it’s Christmas? anche se ha indubbiamente venduto di più: 20 milioni di copie a 12, senza contare versioni successive e remix. Per noi We are the world era anche la cassetta che il nostro compagno di stanza Duccio ascoltava in maniera compulsiva sul Walkman, in una indimenticabile vacanza inglese in cui per la prima volta giocammo a tennis sull’erba (quando il nostro coetaneo Becker già aveva vinto Wimbledon), senza costrutto come tutto il resto.
Al solito teniamo per la fine ciò che avremmo potuto dire all’inizio in due righe: perché queste operazioni musicali di beneficenza fecero scalpore? Un ragazzo di oggi, abituato a mille concerti per cause giuste e meno giuste, potrebbe legittimamente chiedersi cosa ci sia di strano in un gruppo di cantanti che dedica qualche ora di tempo a un disco che oltretutto gli porta anche un’immagine positiva, da personaggio impegnato. La risposta è semplice: fino al 1984-85 non lo aveva mai fatto nessuno, almeno su scala internazionale. La beneficenza era silenziosa e comunque una cosa da ricchi: prima non è che i ricchi venissero a chiedere ai poveri, cioè i loro fan, di aiutare i poverissimi. In generale anche in televisione questo meccanismo ricattatorio non esisteva, e comunque si sarebbe scontrato con un pubblico meno ricettivo e sensibile. Band Aid e ancora di più USA for Africa, per non arrivare al Live Aid, furono quelli che in cialtronese potremmo definire i game changer.
stefano@indiscreto.net