Musica
Pink Floyd: Live at Pompeii
Stefano Olivari 11/03/2025

Perché ascoltare Fedez e Tony Effe quando possiamo riascoltare i Pink Floyd milioni di volte? Domanda legittima per chiunque non faccia il critico musicale e quindi anche per noi, con un tempo limitato da spendere il meno peggio possibile. Domanda ispirataci dalla notizia che il 24 aprile tornerà nei cinema Pink Floyd: Live at Pompeii, il film documentario di Adrian Maben su uno dei concerti più famosi della storia, quello che Gilmour, Waters, Wright e Mason fecero nell’anfiteatro romano di Pompei nel 1971, davanti a nessuno. L’idea di Maben, piaciuta subito ai Pink Floyd, fu quella di contrapporsi ai concertoni da adunata oceanica, a quel gigantismo che in seguito avrebbe preso gli stessi Pink Floyd (noi a Milan-Cavese non c’eravamo ma a Venezia 1989 sì) e che in chiave sfigata è arrivata fino ai giorni nostri, con San Siro, ovviamente ben camuffato e con il doping dei biglietti omaggio, che non viene negato nemmeno a gente che vale un decimo di Mario Tessuto.
Pink Floyd: Live at Pompeii, dicevamo. In quei 4 giorni dell’ottobre 1971, quindi poche settimane prima dell’uscita di Meddle, i Pink Floyd eseguirono le canzoni principali (Echoes, On of these days, Seamus) di quello che rimane il nostro disco preferito fra i loro tanti capolavori, più due di A Saurceful of Secrets e il lato B di un loro singolo di tre anni prima. In realtà fecero anche altro, ma questo è ciò che fu messo nel film uscito l’anno dopo, inserendo anche immagini girate di qua e di là. Tutto un po’ alla cazzo, perché il documentario nato come speciale televisivo diventò film per il cambio di status dei Pink Floyd. Tutto ampiamente ricordato, analizzato, celebrato in maniera degna e indegna, con operazioni nostalgia per cui ci mancano le parole, come quella messa in piedi qualche anno fa sempre a Pompei da Max Gazzé con ospite Manuel Agnelli. Tutto anche in parte replicato da David Gilmour nel 2016 nello stesso luogo e con un pubblico pagante (pagante tantissimo, ma meglio 300 euro per Gilmour che 3 per il pur bravo, ci pizzulizziamo, Geolier), anche se il dio che suonava la chitarra a torso nudo aveva lasciato il posto a un fisico da tifoso dell’Arsenal, ormai l’unica cosa su cui è d’accordo con Waters che ha la stessa fede mentre Mason è indifferente al calcio, così come lo erano Wright e Syd Barrett. Inutile fare filologia da maniaci su queste operazioni, Gilmouur non poteva non fare l’assolo di Comfortably Numb così come i Nomadi non possono evitare Io vagabondo.
Insomma, tutti sanno di cosa stiamo parlando, quindi chiudiamo con la vera domanda: perché una band inglese di buon successo ma non ancora mitologica come erano i Pink Floyd del 1971 doveva suonare a Pompei? Tutti e quattro nelle loro interviste concordano sul fatto che la scelta fu casuale. Maben era un documentarista, nemmeno un vero regista, scozzese sconosciuto che propose al loro manager questa Pompei dove era stato e sarebbe stato in vacanza tante volte, quasi una sua ossessione. Un tipo insistente, Maben, che riuscì anche a superare ogni ostacolo burocratico e a far chiudere per una settimana il sito archeologico, per non parlare delle difficoltà tecniche anche soltanto per portare la corrente. I Pink Floyd decisero che questo concerto nell’anfiteatro romano deserto fosse una cosa così pazza da essere fighissima, che sarebbe stata la loro risposta alle adunate quasi militaresche del rock, e così si fecero una settimana in Italia scrivendo un’altra pagina della loro leggenda. Speriamo che il restauro per arrivare a Pink Floyd at Pompeii – MCMLXXII non abbia tolto quel meraviglioso equilibrio fra tecnologia e umanità che è la caratteristica più emozionante degli anni Settanta. Ovviamente si tratta dell’ennesimo trucco per togliere soldi a noi anziani fragili, visto che la Sony Music ha tutto il catalogo dei Pink Floyd e ce lo sta ripronendo con scarti di lavorazione che vengono fatti passare per diamanti. Ma il gioco è scoperto e giocheremo.
stefano@indiscreto.net