Gli anni di Flash – Intervista a Mauro Repetto

2 Ottobre 2023 di Paolo Morati

Toccava quindi a me, come sempre, dare il la, trovare il diapason. Mentre si avvicina il momento dell’incontro scelgo l’outfit. Opto per una maglietta delle isole Comore, nell’oceano Indiano, al largo della costa orientale africana. Per la prima volta la loro squadra di calcio ha partecipato alla Coppa d’Africa”. È questo uno degli ultimi passaggi di Non ho ucciso l’uomo ragno, il libro di Mauro Repetto scritto insieme con Massimo Cotto per Mondadori e recensito da noi nei giorni scorsi. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata proprio con il co-fondatore degli 883, trapiantato a Parigi da oltre 20 anni, per saperne di più sulla sua storia, al di là del bellissimo libro. Chiacchierata che nel bel mezzo dell’intervista si è trasformata in una piacevole cascata di reciproci ricordi di quegli “anni”, quelli di che belli erano i film… e dei Roy Rogers come jeans.

Partiamo subito dall’episodio di quella maglietta…
Da appassionato di calcio avevo deciso di acquistare la maglia delle Isole Comore, nazione per la prima volta qualificata per la Coppa d’Africa. A fine 2019 mi è stato chiesto di partecipare ai concerti di Max Pezzali a San Siro, tenutisi poi nel 2022, e ho deciso di indossarla in occasione del primo incontro con lui dopo una decina di anni. Non volevo dire “Buongiorno, ciao, come stai”, ma creare subito la giusta atmosfera, proponendo così, di getto, una sorta quiz a premi. Ho quindi esordito con: “Offro 400 euro a chi indovina la squadra di questa maglia”. A vincere è stato il figlio di Max, eseguendo una rapida una ricerca su Internet sullo sponsor. Noi quando eravamo ragazzi ci avremmo messo delle ore.

Tra l’altro tu e Max avete scritto canzoni piene di riferimenti calcistici. Tu nasci come juventino per poi diventare genoano, Max interista. Avete mai litigato per il calcio?
Assolutamente no. Tra l’altro io non ho una passione fissa per una squadra. Vivendo a Parigi oggi seguo il PSG, che però si squaglia sempre negli ultimi turni della Champions League. Vedremo quest’anno. Come giocatore Mbappé è quello che oggi mi esalta di più mentre da ragazzino ero fan di Fulvio Collovati (ovviamente siamo finiti a citare anche Recoba… n.d.a). Io però del calcio ammiro l’essere un bello spettacolo, la parte estetica.

Cosa ti ha spinto dopo 30 anni a pubblicare la tua storia che è quella di un ragazzo nato a Genova ma di fatto a un anno trasferitosi a Pavia con i genitori?
Mi ero messo a riordinare virtualmente la mia cameretta, contenente vecchi ricordi che credevo impolverati anzi più che impolverati, ‘putrefarciti’ (usa proprio questo termine, come se stesse già scrivendo una canzone n.d.a.), e mentre li stavo buttando via per fare spazio a nuovi ricordi e nuove cose da comprare per la mia vita, li ho visualizzati. Ecco che mi facevano quasi sorridere, sghignazzare. Provavo piacere a giocarci, come se si trattasse delle vecchie squadre di Subbuteo da ritirare fuori in età adulta. Ecco che insieme a Massimo Cotto nel giro di un weekend abbiamo riversato questo fiume in piena di vecchi giocattoli, non impolverati ma ancora gradevoli per giocarci insieme.

Un fiume in piena. Una definizione che si addice anche a te. Del resto da ragazzo venivi soprannominato Flash…
Esatto, Flash. Tra l’altro tra i miei vecchi amici c’è ancora chi mi chiama così. È il mio modo di procedere, guardando sempre dritto avanti. Nel caso del libro l’ho applicato giocando soprattutto con il passato, guardando ai match persi e a quelli vinti. Senza farmi troppe domande e raccontando.

Hai frequentato tante città… da Pavia a Los Angeles, New York, Parigi, Milano… però sei nato a Genova.
I miei si sono trasferiti a Pavia quando avevo un anno. Di fatto la Liguria l’ho vissuta solo per le vacanze. Posti come Finale Ligure, Varazze, Diano Marina. Oppure i weekend a Sampierdarena o a Genova dalla nonna.

E quindi cresciuto a Pavia con viaggi a Milano alla ricerca di Claudio Cecchetto…
Personaggio fondamentale e per me ancora oggi una sorta di Walt Disney, una delle sole due persone che sono riuscite a mettermi in soggezione la prima volta che le ho viste dal vivo. Intimidito per il suo carisma, non riuscivo ad avvicinarmi. L’altra è Martin Scorsese, citato anche nel libro quando lo incrociai a Los Angeles sul Santa Monica Boulevard. Tornando a Cecchetto, all’epoca sotto la sede di Radio Deejay in via Massena si assiepavano ragazzi e ragazze in attesa dei vari personaggi, da Albertino a Linus passando per Jovanotti. C’era un bellissimo clima, quello di Claudio era un vero impero che tra l’altro portava in Italia tante novità compreso il rap. Riuscire a incontrarlo e conquistarlo era difficilissimo. Come superare un’asticella altissima, inarrivabile, forse ancor più di quando nel 1994 decisi poi di mollare tutto per trasferirmi negli Stati Uniti per conquistare la modella Brandi Quinones.

Brandi Quinones che è stata appunto una di quelle asticelle che volevi superare, e che ti portarono, insieme alla mancanza di un ruolo, a lasciare gli 883 trasferendoti negli USA, prima a Miami… ha mai saputo della tua storia?
Non credo, anche perché non ho mai agito da stalker pur avendo comunque conosciuto delle sue amiche. Tra l’altro, dopo averla cercata tanto negli USA, la vidi a Parigi anni dopo, nei pressi dell’Hotel Ritz. Decidendo di non avvicinarla dopo averla tanto cercata a Miami, New York, Los Angeles. Un colpo di fulmine, un’infatuazione durata qualche mese e che si è poi spenta diventando una delle pagine della mia vita. Resta però un ‘debito intellettuale’ da pagare, ma dovrei farlo con qualcosa di bello, ad esempio coinvolgendola in un videoclip.

Torniamo ai primi anni. Di fatto dopo tante porte chiuse in faccia da un funzionario discografico, che nel libro chiami ‘il burocrate’, riuscisti tramite il portiere di Via Massena a far avere una cassetta a Cecchetto…
Il termine burocrate può suonare un po’ bizzarro ma ho deciso di non nominarlo per non mancargli di rispetto, perché alla fine ci ha permesso di scrivere tanti pezzi, seppure rifiutati, avendo firmato un contratto come autori. Sono stati i suoi no a farci successivamente diventare dei ‘portenti’ del pop italiano. È come quando una ragazza continua a negarsi quando la inviti, e quindi cerchi di essere non dico bello e nemmeno proponibile, ma comunque ‘uscibile’. Per poi arrivare, dopo tanti rifiuti, al livello di Brad Pitt… Gli avevamo proposto Hanno ucciso l’Uomo Ragno, Finalmente tu, Come mai, Tieni il tempo, Con un deca, e la risposta era sempre ‘fanno cagare e non c’è l’idea’. La genialità di Cecchetto fu invece di entusiasmarsi, tra l’altro per un brano come Non me la menare… ci chiamò subito. Una sorta di anticiclone.

Hai elencato diversi brani che sarebbero poi diventati grandi successi, che in precedenza avevate appunto proposto al ‘burocrate’ solo come autori…
Dovevamo creare delle canzoni per gli altri, facendo anche delle scelte un po’ ridicole. Ad esempio quando ci fu chiesto di scrivere per Sanremo, la nostra prima proposta era in inglese, tanto eravamo influenzati dal mondo americano. Avevamo ragionato pensando a Prince, a Bon Jovi e la risposta del ‘burocrate’ era stata: “Ma che cazzo fate? Vi chiedo una canzone per Sanremo, me la portate in inglese, andate a casa a scriverla in italiano”. L’interprete a cui proporla doveva essere Massimo Ranieri. Da lì è poi nata Finalmente tu, e successivamente Come mai e Una canzone d’amore. Non so se Ranieri all’epoca le abbia mai potute ascoltare, o semplicemente ci venisse detto che non andavano bene.

Quanta libertà di azione vi lasciava invece Cecchetto?
Non ci ha mai cambiato una virgola di un testo, di una canzone, ma nemmeno del mio modo di stare sulla scena, che era quantomeno originale. Una modalità strampalata e improvvisata, ma certamente unica, per essere gentile con me stesso (nel libro parla di passi improbabili, n.d.a.)…

Però avevate ancora quel contratto a vita, con la Warner, come racconti nel libro…
In questo Claudio si è comportato come uno dei Cavalieri della Tavola Rotonda, un vero condottiero. Disse di non preoccuparsi che ci avrebbe pensato lui. Andò a parlare con la casa discografica, ma probabilmente anche con chi rappresentava Spiderman in Italia, e risolse tutto rapidamente.

Dopi i primi due album decidesti quindi di andare negli Stati Uniti, dicendo a Max (siamo a inizio aprile 1994) “Vado a Miami e non so se torno”. Da lì parte la tua avventura americana, con anche l’obiettivo di fare un film. Sparisci finché non chiami i tuoi genitori. E quando si scoprì dove vivevi negli Stati Uniti Cecchetto cercò di farti tornare…
Mi chiamò veramente tante volte a Los Angeles. Ricordo che mi diceva “No, ma lascia l’albergo… parti subito… cosa stai a fare lì”.

Non hai mai avuto ripensamenti?
Neanche mezza volta. Io ero veramente contento di trovare un’altra via per assecondare ciò che volevo fare. Sul palmo della mia mano c’era una linea del destino che mi portava – adesso farebbe ridere – a seguire il sogno americano. Eravamo però in un periodo in cui cercare di vivere e fare un album a New York o un film a Los Angeles era una figata. Come seguito dell’avventura degli 883 per me era normale fare quello che ho fatto, quindi non ho mai avuto il minimo dubbio.

A un certo punto hai realizzato anche un album, pubblicato in Italia con il titolo di ZuccheroFilatoNero… un flop clamoroso.
La storia è questa. Conobbi e diventai amico di Beverly Peele, una modella statunitense molto famosa. A New York cercai di fare un disco col suo ragazzo Jeff, che era un rapper. Eravamo nel 1994, un momento grandissimo per il genere, l’epoca di The Notorious B.I.G. per intenderci. Tra gli amici di Beverly c’era Russell Simmons, il grande tycoon dell’etichetta Def Jam, che decise di appoggiarmi. In studio con noi c’era sempre il figlio di Clyde Davis (Mitch), il produttore fondatore della Arista Records, scopritore tra i tanti anche di Whitney Houston. Mi sentivo quindi in una botte di ferro. Un giorno Jeff picchiò Beverly perché lo aveva tradito. A quel punto, nonostante io non fossi direttamente coinvolto, l’interesse per il mio album svanì e io ritornai in Italia portandomi dietro sotto le ascelle il registrato ma anche Jeff. Il disco per me era venuto molto bene ma al cambio in italiano perse tantissimo. Ero svogliato, il mio obiettivo era farlo con successo a New York con rapper e cori americani. In due giorni invece lo tradussi sul divanetto dei miei genitori, quindi lo registrai a Milano negli studi di Toto Cutugno. Non me ne preoccupai nemmeno, ero già via con la testa e Claudio Cecchetto se n’era effettivamente accorto.

A quel punto iniziò l’avventura francese che ti avrebbe portato a lavorare per Disneyland Paris, di cui oggi sei event executive. Tornando agli esordi, che musica prediligevi all’epoca e invece ascolti oggi?
Io Max venivamo dal rock ma anche dal rap che è poi stato sempre il mio riferimento. All’inizio c’erano i Public Enemy, Run DMC, Beastie Boys. E successivamente Dr. Dre, Snoop Dog e appunto The Notorius B.IG., Tupac Shakur, Puff Daddy. E anche quando facevo i balletti strampalati, di base nella mia testa c’erano le ballerine dei primi videoclip. Io non riuscivo a fare lo stesso ma era qualcosa di meraviglioso nella mia testa. Insomma il mondo del rap mi è sempre piaciuto. Ad esempio, ritengo che Doja Cat sia la cosa migliore in circolazione. Ascolto ovviamente più quello francese che quello italiano e anche qui i giovani inseriscono derivazioni come la trap nelle proprie playlist. In generale penso che sia il genere più ascoltato al mondo, ancor più della musica latina.

Per questioni di metrica e fonetica la lingua inglese era all’inizio comunque quella considerata più adatta…
Nel periodo di Reckless chiesi ad Afrika Bambaataa se secondo lui fosse impossibile fare il rap in italiano. E lui mi rispose: “Sei fuori? Il rap è proprio la lingua di ognuno, esprime la tua anima e chiaramente funzionerà anche in italiano”.

I tuoi figli che cosa ascoltano?
Sostanzialmente rap ma anche R&B. Una cosa che mi ha colpito incredibilmente è che questa estate sono andato a un concerto di Chris Brown al Madison Square Garden con loro (maschio e femmina), è che mia figlia (lo ignoravo) sapeva a memoria tutte le sue canzoni. Io, per dire, ne conoscevo solo una bene e non l’ho neanche cantata.

Insomma hanno l’età di quando noi seguivamo DeeJay television (A questo punto la nostra chiacchierata divaga su alcuni ricordi comuni…). E a proposito di televisione il libro ha aperto una finestra anche sui miei ricordi impolverati quando hai citato la trasmissione Buonasera con… e Goldrake. Gli anni di SuperGulp.
Sì Buonasera con… Mario Carotenuto (siamo a fine 1977) la stessa fascia oraria anche di Happy Days. C’erano veramente delle trasmissioni bellissime, che guardavo ogni sera.

Anche perché c’erano solo quelle… questa estate ho anche conosciuto il cantante della sigla di Mork& Mindy.
Ce l’ho ancora in testa, il clip che apriva il telefilm, la canzone. Non era di Gino Santercole?

No, Bruno D’Andrea (e qui mi fermo nel riportare le nostre divagazioni su Santercole, il Clan ecc.…). Torniamo al tema del libro. Da quello che ho inteso sei un grande osservatore della realtà. Quali storie si potrebbero raccontare nei testi di una canzone di un ventenne di oggi?
Loro si raccontano molto più di noi, in ogni istante con delle frasi iper, iper stringate. E con un flusso quotidiano totale, su qualunque social, su WhatsApp o Snapchat, continuamente. Oppure leggono questi racconti, una sorta di trasferelli della loro vita in quel momento materiale e spirituale. Dovessimo parlare di canzoni, è la stessa cosa che accadeva a me e Max, con la differenza che raccoglievamo tutto in un codino di capelli mentre loro oggi li tengono sciolti, in un continuo flusso di piccole frasi.

E quali invece quelle di un ultra cinquantenne come te (e me)?
I nostro coetanei ascoltano molto, si rendono conto che rompono i coglioni quanto quando parlano, soprattutto con quelli più giovani. Ecco, io ho paura di essere un pochettino pesante, nel senso che vedo più sveltezza e stringatezza anche nei trentenni. Temo che noi siamo un pochettino logorroici mentre dovremmo invece essere i più stringati possibile. Quello che scriviamo su WhatsApp è sempre dieci volte più lungo di quello di un trentenne, per non parlare dei ragazzini.

Nel libro racconti che Max Pezzali è sempre stato in una posizione di retrovia fino al grande successo. Eri tu che trainavi e spronavi, anche dopo l’ennesima giudizio negativo da parte del ‘burocrate’… Poi hai dovuto ritagliarti il tuo ruolo, mollando la chitarra che facevi finta di suonate e mettendoti a ballare, nonostante fossi comunque il co-autore dei brani. Tra l’altro quando siete usciti nessuno conosceva i vostri volti, perlomeno con il primo album…
Esatto. Hanno ucciso l’uomo ragno uscì all’inizio dell’estate, e nessuno sapeva chi e come fossimo. Poi via via sempre di più fino all’anno successivo con il video di Nord Sud Ovest Est, la partecipazione al Festivalbar, hanno iniziato veramente a riconoscerci.

Ma cos’è che vi ha permesso di non mollare mai? Avete anche fatto i galoppini per un manager di Genova e avuto qualche prima occasione presentando Live in the Music a 1, 2, 3… Jovanotti.
Ti dico la verità. Per noi fare le canzoni era un passatempo e non un progetto di carriera, anche se nato certamente dalla voglia di fare qualcosa di concreto. Facevano questi ‘diagonaloni’ del pomeriggio a Pavia che per noi erano equivalenti ad andare al bar, giocare a tennis. Allo stesso modo avremmo potuto andare al Ticino a pescare. È per quello che non ci sono mai fermati, perché era qualcosa di piacevole.

Però non eravate dei musicisti…
Max suonava la melodia con due dita su una Korg, ma poteva quantizzare tutto. E poi campionavamo, cosa all’epoca consentita. Io dietro di lui facevo l’air guitar, per gasare, per spingere verso una certa direzione. Ce l’abbiamo fatta comunque.

A proposito di chitarra nel libro dichiari che “La cruda, nuda e terribile verità è che, se io avessi imparato a suonare la chitarra, non avrei mai lasciato gli 883, e la mia vita sarebbe andata molto diversamente”. Cosa ti lega a questo strumento?
È uno strumento che ho adorato fin da ragazzino. Eddie Van Halen, Slash, Richie Sambora. È il mio passatempo preferito, mi gaso quando affitto degli studi per poi suonarla. Chiaramente la suono come ritmica, come accompagnamento.

I tuoi figli si sono resi conto di cosa siano stati gli 883?
Poco. Non mi piace parlare tanto del mio passato. Anche mio padre non lo faceva con me. Il suo primo lavoro era stato quello di comandante delle petroliere. Mi avrà detto una volta “Sai, ho visto uno squalo grigio in India” oppure “Ho rischiato la vita in un porto presso dei cantieri in Camerun”. Mai è entrato nel dettaglio della sua vita di comandante, per cui anche per me è stato normale non parlare della mia prima vita con gli 883. Quello che sanno lo hanno appreso in gran parte da mia madre, sotto forma di vere e proprie rassegna stampa, con tanto di foto dettagliate.

Che supereroe avresti voluto o vorresti essere?
Vorrei essere il personaggio dei Guardiani della galassia interpretato da Zoe Saldana: Gamora.

Qualche tempo fa i vostri fan dopo avervi rivisto insieme sul palco auspicavano una vostra partecipazione a Sanremo. Ci potrebbe essere qualcosa di vero?
Assolutamente niente. Non abbiamo mai fatto nulla di studiato a tavolino. Potrebbe invece nascere qualcosa di spontaneo, magari una sera, trovandoci a fare due chiacchiere piacevoli a sghignazzare, come in passato. Io poi ho una carriera musicale ancora da far cominciare mentre lui è una popstar.

Adesso, per chiudere, in effetti ti trovi in uno studio di registrazione…
Io sono un po’ come Peter Parker e Spiderman, con questa doppia veste di professionista e ‘dreamer’. Quindi, oltre al mio lavoro di executive, sto realizzando un pezzo nuovo che piace molto anche al mio management. Vedremo se piacerà anche ad altri. In questo momento la corista sta eseguendo la sua parte e mi hanno chiuso in un ripostiglio perché stavo parlando con te a voce troppo alta… (come un fiume in piena, n.d.a.).

info@indiscreto.net

Share this article