Oasis Knebworth 1996, la perdita definitiva dell’innocenza

24 Settembre 2021 di Simone Sacco

«Andare al concerto? Fu come trovare il biglietto dorato di Willy Wonka». Si ascoltano anche battute del genere in quel gran sfoggio di storytelling che è Oasis Knebworth 1996, il film-documentario che racconta le due famose notti nelle verdi campagne britanniche, 10 e 11 agosto 1996, in cui andò in scena “lo show del decennio”. Quello che sta alla band originaria di Burnage (sobborgo di Manchester) come al mito di Maradona sta il secondo gol in serpentina segnato contro gli inglesi a Messico ‘86.

Difatti lo zenith gallagheriano fu precisamente quello. O, per citare Wikipedia, la mostruosa cifra di 250mila tagliandi venduti per oltre due milioni e mezzo di richieste. In pratica il 5% della popolazione britannica voleva essere là, a Knebworth Park, durante quell’umido week-end di agosto. Eppure, nel corso degli anni, il gotha del rock inglese si era esibito più volte in quel campo sterminato dell’Hertfordshire. Parliamo di gente tipo Led Zeppelin, Deep Purple, Queen e Genesis. Nel 1990 ci organizzarono un festival benefico con ospiti Paul McCartney, Eric Clapton, Elton John, i Dire Straits e i Pink Floyd. Nell’estate del 2003 Robbie Williams riuscì a radunarci addirittura 375mila fan (asterisco: l’ex Take That, però, nel corso di tre serate).

Niente da fare, non ci casca più nessuno. Knebworth, ancora oggi, continua a restare sinonimo di Oasis-mania e viene ricordato esclusivamente per cosa ci combinarono quei briganti rock di Liam e Noel. D’altronde la beata ingenuità degli anni Novanta (epoca nella quale vennero create a tavolino e a distanza di pochissimo tempo non una, ma ben due scene musicali: il grunge di Seattle e il britpop di marca londinese) era al suo culmine e dopo nulla, a livello discografico, sarebbe stato più lo stesso.

Dal 1996 in poi i generi, i maledetti generi (hip hop, indie rock, nu metal, elettronica) erano pronti ad esplodere. Il potere di Internet ci avrebbe fatto scoprire di tutto, anche il post rock coreano. La nostalgia delle reunion cominciava a dilagare nelle nostre coscienze. Il crollo delle vendite dei CD e il caro-biglietti avrebbero sprigionato il poco accattivante odore del classismo. E allora in tempi recenti hai voglia andare ad un concerto e non trovarci contemporaneamente l’architetto amante di Springsteen, la influencer che ascolta solo Beyoncè, il notaio con la maglietta dei Pearl Jam, il cazzuto startupper con un debole per i Rammstein, il reduce over 50 che adora i Pixies e lo studente fuoricorso che si è fermato ai Killers. Mettiamola così: Coachella si è mangiato lo spirito del ‘96 esattamente come il fondo qatariota si è comprato a suo tempo il Manchester City.

Per fortuna il Knebworth messo in piedi dagli Oasis era ancora anni luce da questo macello sociologico e nella pellicola – che esce in Italia solo il 27, 28 e 29 settembre – diretta da Jake Scott, figlio di Ridley, tutto ciò si nota alla perfezione. Prima di tutto non stiamo parlando di una performance ripresa in 4K da mille telecamere. Sono ancora gli anni Novanta, gente: l’audio è pastoso, le immagini talvolta sgranate e le canzoni (tutte grandiose) vengono immancabilmente interrotte dal voice-over della band e dalle decine di fan che erano presenti all’evento. L’effetto è un po’ quello di quei vecchi DVD con sotto il commento del regista, dell’attore principale e del direttore della fotografia. Quasi due ore di magia vintage con qualche elemento di fiction qua e là (al limite della commozione il ragazzino con capello alla Beatles che si gusta lo show per radio). Un montaggio veloce ma umano fatto di musica, immagini e parole che compie sì il miracolo di riportarti indietro di 25 anni, ma riesce pure a ficcarti in testa il tuo modo di vivere d’allora. Sempre, ovviamente, se siete stati tra quei fortunati che se lo sono potuti permettere.

Ve lo spieghiamo meglio. La grandiosità di Oasis Knebworth 1996 è quella di parlare di te e farti riassaporare ciò che provavi una volta giunto alla soglia dei tuoi primi vent’anni. Quando, senza i social o gli smartphone, il senso della vita era quello di metterti in fila fuori da un negozio di dischi e accaparrarti un biglietto di un concerto molto atteso. E, portata a termine quell’impresa più poche altre incombenze, goderti semplicemente quello che ti stava attorno.

Nel film, a livello di ricordi, si ascolta un po’ di tutto. Da quello che sarebbe diventato padre otto mesi dopo Knebworth (ah, il tempismo della fidanzata…) a quella che avrebbe perso il fratello di lì a poco e intanto quella sera se ne stava felice con lui ad ascoltare incantata Live forever. Senza dimenticarsi quell’altro che stava per iniziare un nuovo lavoro dopo tre anni di sussidio speso tutto a cigarettes and alcohol. Solo che quel tipo non va a baciare la ciabatta alla multinazionale o al sindacalista di turno, ma preferisce buttarsi nella calca dell’esibizione dei Prodigy (che quel giorno furono supporter degli Oasis) pur di far durare ancora un po’ l’incantesimo della spensieratezza. Un tributo meraviglioso a Keith Flint, quest’ultimo, senza l’unto del cordoglio conformista. Il Firestarter, sapete, è mancato un paio di anni fa.

In Oasis Knebworth 1996 le canzoni che amiamo ci sono tutte, quindi inutile stilare scalette. Noel Gallagher non evita di fare il Cristiano Ronaldo della situazione («In quel 1994 il testimone del rock ce lo prendemmo da soli, altro che farcelo passare dagli Stone Roses», «Wonderwall è la più grande ballata degli anni Novanta», «Don’t look back in anger l’ho scritta la stessa settimana di Wonderwall: che figo, eh?»,), Liam Gallagher è un signor showman, cantante di razza oltreché autore di una performance clamorosa; la batteria di Andy White è tuonante e militaresca; l’armonica di Mark Feltham in The masterplan trafigge il cuore, ma non è questo il punto.

Il concetto è un altro. Quell’anno in Gran Bretagna (e forse pure nel resto d’Europa) ci fu un enorme cortocircuito di – chiamiamolo – “peterpanismo”. Nessuno praticamente voleva più crescere, lo stile di vita era una via di mezzo tra Trainspotting e il clima euforico di Euro ‘96 col gol-sombrero di Gascoigne agli scozzesi, con neanche un Donnarumma all’orizzonte pronto a rovinare la festa ai sudditi di Sua Maestà (anche se in quel caso ci pensarono i tedeschi). Non vorremmo citare l’abusato cliché del “peace and love”, ma durante il weekend di Knebworth ci furono solo dieci arresti a fronte di una folla biblica (la polizia inglese ancora stenta a crederci) e tutto ciò in un paese bello alcolico e problematico che appena undici anni prima si era macchiato dell’Heysel. Solo per saperci mostrare questo clima assolutamente fantastico a Oasis Knebworth 1996 bisognerebbe dargli l’Oscar della Rilassatezza. Che oggi si chiama swag ed è solo un’altra truffa del marketing.

E comunque nel luglio successivo, a nemmeno un anno di distanza dal concerto dei concerti, Noel Gallagher pubblicò un pezzo memorabile dei suoi che tentò invano di fermare quel momento. Quello che nel coro faceva: “Tutto il mio pubblico proprio qui, proprio in quest’istante/Capisci cosa voglio dire?”. Purtroppo lo capirono solo i fan più leali. Gran parte di quei 250mila probabilmente no. Se ne accorse anche lo stesso Noel che, poco alla volta, cominciò a staccarsi da quel suo populismo genuino per rifugiarsi dietro ad amicizie di facciata tipo quelle con Tony Blair o Alex Del Piero. Gli Oasis si sarebbero sciolti senza troppi rimpianti solamente nel 2009, ma la loro innocenza era già morta da tempo. In un punto imprecisato tra le cartacce lasciate sul prato di Knebworth e l’uscita del comunque bellissimo Be Here Now. Diamoci un taglio e mettiamola così: il Noel Gallagher odierno è un po’ Messi che molla il Barcellona per scappare dall’emiro sotto la Torre Eiffel. Oasis Knebworth 1996 è la Pulce che si lascia dietro di sé tutta la squadra del Getafe. Al culmine – ricordate? – di quell’euforico dribbling.

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