La mia RAI e il mio calcio (Intervista a Beppe Barletti)

9 Marzo 2016 di Stefano Olivari

Beppe Barletti

È un peccato che molte delle persone che si stanno apprestando a leggere questa intervista non abbiano visto in azione un giornalista come Beppe Barletti. Del resto è andato in pensione nel 1993 e i pochi frammenti dei vecchi ‘Novantesimo Minuto’ e ‘Domenica Sprint’ che girano sul web non gli rendono giustizia, anche perché nella sua carriera si è occupato di moltissimi argomenti diversi dal calcio. In estrema sintesi: Barletti era il giornalista di una volta, nel senso migliore dell’espressione, quello che raccontava con proprietà di linguaggio cose che nell’era pre-web la gente non poteva già aver saputo in tempo reale. Come figura era ed è l’emblema di una certa piemontesità seria ma non seriosa, anche se non ha mai amato le etichette. E nell’intervista esclusiva che ha rilasciato a Indiscreto spiega molto bene il perché.

Signor Barletti, tantissimi appassionati di calcio la ricordano ancora con affetto: cosa fa adesso?

Ho 87 anni, compiuti lo scorso 30 settembre, sono in pensione da 23, vivo a Torino con mia moglie e mi tengo informato su un po’ di tutto.

Partiamo allora dall’inizio: come è nata la sua idea di diventare giornalista?

Esattamente non lo so, ma so che una volta il giornalismo era considerato una professione ambìta e rispettata. Ho un ricordo nitidissimo: a sette anni, nel 1935, mio padre mio porta nei parterre a seguire una partita internazionale della Juventus, in quella che allora si chiamava Coppa dell’Europa Centrale . A un certo punto mi indica la tribuna stampa, dietro di noi: “Vedi? Quelli sono i giornalisti. Se studierai e sarai bravo un giorno forse diventerai uno di loro”.

E in quale modo ce l’ha fatta?

Gino Rancati Gino Rancati

Per gradi e superando un brutto momento. Ho iniziato collaborando a ‘Il Piccolo Commercio’, giornale dei venditori ambulanti di Torino, al mercato di Porta Palazzo. Mio padre era uno di loro. Poi dopo un colloquio con il capocronista Giulio Efisio Manca sono entrato a Stampa Sera, dove mi sono occupato di varie cose, dalla cronaca allo sport. Sono rimasto lì sette anni, conoscendo persone eccezionali come Gigi Boccaccini, prima di lasciare il giornalismo. Per qualche tempo ho lavorato nell’azienda del padre della mia prima moglie, in tutt’altro campo. Ma finito il matrimonio è finito anche quel lavoro. Sono rimasto disoccupato per quasi due anni, fino a quando allo stadio per puro caso ho incontrato Gino Rancati, mio ex collega alla Stampa, che mi ha chiesto dei miei progetti. Sono stato sincero: “Sto meditando di salire sul tetto dello stadio e di buttarmi”. Di lì a poco grazie a Rancati sono riuscito a entrare alla RAI di Torino e dopo un anno di precariato sono stato assunto. Era il 1967, il caporedattore era Aldo Assetta Binda, persona anche lui di grande livello: fra l’altro ex ufficiale di cavalleria, in guerra era stato sul fronte jugoslavo. Devo quindi ringraziare Rancati, forse l’unico giornalista che dava del tu a Enzo Ferrari. Da lì in poi soltanto RAI, con esperienze indimenticabili.

Lei si occupava soltanto di sport?

No, ognuno doveva occuparsi delle notizie del giorno senza distinzioni. Del resto eravamo in undici e a turno bisognava anche andare un mese ad Aosta, mentre oggi alla RAI di Torino sono, se non sbaglio, in quarantaquattro. Cronaca, politica, anche reportage dall’estero quando capitava. Me ne ricordo in particolare uno in Egitto, riguardante il Lago Nasser, quello creato dalla costruzione della Diga di Assuan. Come cronaca nera non mi toglierò mai dalla mente la strage dei Graneris ed il momento in cui entrai in quella casa con dentro morti marito, moglie, figlio e nonna, con questa ragazza dallo sguardo perso nel vuoto e il tenente Fornasier che mi disse subito: “Non si faccia prendere dalla compassione, Barletti, l’assassina è lei”. Tante anche le interviste importanti, su tutte quella al grande cardiochirurgo Chris Barnard. Bello occuparsi di tutto, pur amando il calcio.

Una delle chiavi del successo di Novantesimo Minuto era quella di accentuare i caratteri dei giornalisti in collegamento, spingendo molto sull’identificazione locale e il tifo. In questo quadro lei era l’immagine del piemontese rigido e austero…

Non ho mai creduto alla regionalizzazione, credo piuttosto nel valore delle singole persone. Di sicuro Paolo Valenti mai ci ha chiesto di recitare una parte: ognuno di noi era se stesso, con i suoi pregi e difetti. Ero molto legato anche a Maurizio Barendson, che nel 1978 mi disse “Appena torni dai Mondiali in Argentina vieni alla RAI di Roma”. Purtroppo morì pochi giorni dopo e così sono rimasto a Torino. Quanto al tifo, io sono nato a Torino da madre torinese, ma mio padre era di Lecce e per qualche anno a Lecce e nel Lecce ho anche vissuto e giocato: quella è la mia squadra del cuore, anche se ovviamente quei pochi amici che ho nel mondo del calcio sono tutti legati a Juventus e Torino.

Con chi ha mantenuto un rapporto che ha resistito agli anni?

Giampiero Boniperti Giampiero Boniperti

Parlando di persone che adesso non ci sono più, sono stato amico del grande Pietro Rava, oro olimpico e vincitore del Mondiale 1938. E di Giorgio Ferrini, capitano del Torino. Parlando di viventi l’amicizia che nasce più da lontano è quella con Giampiero Boniperti. Nata non negli stadi ma nell’esercito: entrambi eravamo nel primo reggimento artiglieria di montagna. Un’amicizia che nella professione è stata inutile: Boniperti mai mi ha mai dato una notizia. Ma del resto ognuno faceva il suo lavoro. Sono tuttora amico di Antonio Cabrini e Beppe Furino, anche se ci sentiamo raramente. Trovo in ogni caso giusto tenere separati i ruoli, anche se qualche anno fa fra giornalisti e giocatori non c’erano barriere e quindi era più facile entrare in sintonia con chi intervistavi. Adesso, fra conferenze stampa preparate e veline degli uffici stampa, è aumentata la quantità dell’informazione ma non la qualità. 

È vero che Platini era di un’altra categoria, non soltanto in campo?

È vero. Appena arrivato in Italia lo intervistai al ristorante, da Urbani. Appena gli feci una domanda extracalcistica lui mi rispose in maniera inaspettata: “Vuoi sapere cose del mio giardino segreto?”. Ecco, non sono molti i calciatori capaci di spiazzarti con una frase, ma Platini era davvero più di un campione sul campo e lo ha dimostrato anche nel resto della sua vita. Mi dispiace molto per le sue vicissitudini attuali.

Quali sono i suoi giornalisti sportivi preferiti?

Fra i grandi Giglio Panza e Gianni Brera, che ho anche conosciuto bene. Fra i colleghi più giovani di me ho una grande stima di Carlo Nesti, il migliore di tutti come telecronista. Gli avevo consigliato di andare a lavorare a Roma, per non farsi sorpassare, ma lui è troppo legato a Torino.

Per parlare di sport bisogna averlo praticato?

Ho giocato tanto a calcio, a Lecce e in squadre piemontesi come il Vanchiglia e il Bertolla. Ho avuto poi l’occasione di andare alla Pro Vercelli, ma la mia famiglia mi ha fatto scegliere lo studio. Devo dire che non sarei mai in ogni caso diventato un campione, già quando giocavo intuivo che il calcio avrei fatto meglio a raccontarlo.

Quanto è cambiato il giornalismo sportivo da quando si vedono tutte le partite e non più un un tempo in differita di una soltanto?

Il giornalismo televisivo è sicuramente cambiato, per certi versi è più facile perché adesso ti muovi in situazioni strutturate mentre noi dovevamo andare a caccia anche delle notizie più banali. Ma ogni epoca ha le sue difficoltà. Personalmente sono contro la specializzazione, non soltanto quella sportiva: un giornalista deve informarsi e raccontare, in base all’attualità e alle necessità della sua testata. 

Quanto è stato difficile occuparsi di calcio, di cronaca e di politica nella città degli Agnelli? Negli anni Settanta e Ottanta, oltretutto.

Mai, né alla Stampa né alla RAI, ho ricevuto indicazioni su cosa scrivere. Nemmeno quando avrei potuto toccare certi interessi, non soltanto nello sport. Credo che ci sia meno libertà oggi, parlando dei grandi media.

Alla RAI la politica contava più una volta o adesso?

Non vedo grandi cambiamenti. Io non ero entrato per raccomandazioni politiche, ma grazie a giornalisti che già erano in RAI e mi conoscevano. Però in anni seguenti una persona con molto potere in RAI mi disse che per fare un certo tipo di carriera avrei dovuto prendere la tessera di un partito di quelli che contavano. E i partiti che contavano in RAI erano tre: DC, PCI e PSI. Non appartenevo ad alcuno di loro ed in ogni caso non volevo partecipare a questo meccanismo. Sono contento così. 

Ma la RAI ed in generale il servizio pubblico oggi hanno un senso?

Ci sono cento canali televisivi interessanti e tutti possono guardare i programmi preferiti quando vogliono, la RAI ha perso la sua centralità anche perché i tempi sono cambiati. Rimane un grande veicolo di pubblico impiego per le truppe di questo o quel politico, in proporzioni molto maggiori rispetto al passato. In generale la televisione, non soltanto la RAI, è piena di personaggi intercambiabili che puoi trovare su un canale o su un altro senza sorprenderti. 

Nell’era del web consiglierebbe di fare il giornalista? Cosa direbbe nel 2016 a quel bambino di sette anni che guardava la tribuna stampa?

Ammetto di essere estraneo al mondo di Internet! Però vedo i cambiamenti che ha portato… Nonostante tutto, non mi sentirei di scoraggiare un ragazzo che vuole fare il giornalista se questa è davvero la sua aspirazione. Oggi non è la strada più facile per guadagnare soldi o avere una posizione sociale, ma sono convinto che ognuno nella vita debba inseguire il proprio sogno fino a quando è possibile. 

(in esclusiva per Indiscreto)

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