Anni Ottanta
La danza eterna di Juary
di Gianluca Casiraghi
Pubblicato il 2020-10-20
Juary è uno di quei personaggi che non hanno bisogno di presentazioni. Era ed è rimasto famoso per la sua esultanza ad ogni gol con la danza intorno alla bandierina, però l’ex attaccante brasiliano non è stato solo quello. E tutto il resto ce lo ha raccontato in una lunga chiacchierata prima della presentazione dell’apertura di una scuola calcio della Santos Academy, di cui è direttore tecnico, a Gessate vicino a Milano.
Partiamo dai tuoi primi passi su un campo da calcio…
“Ho iniziato a 9 anni nell’Eden football club, la squadra del mio paese di nascita São João de Meriti, nello stato di Rio de Janeiro , e sono stato un “menino da vila”, in italiano “un ragazzo del villaggio”, di quelli che disputavano dei tornei organizzati dal Santos per reclutare ragazzi per le giovanili. Sono poi finito al Santos e nel 1977 ho esordito in prima squadra, esplodendo in un torneo internazionale con Inter e Atletico Madrid. Proprio contro gli spagnoli segnai un grande gol sfuggendo alla marcatura di Luis Pereira, che era stato difensore centrale della Nazionale. E proprio lui parlò bene di me. Così nel 1978 ero in pianta stabile con i “grandi” del Santos e vincemmo il campionato Paulista di quell’anno, che in realtà si concluse nel 1979 perché l’anno prima c’erano stati i Mondiali in Argentina. Era il primo campionato vinto dai tempi d’oro di Pelè e soci, che lo avevano conquistato l’ultima volta nel nel 1973, e fui anche capocannoniere con 29 reti“.
Di quel campionato tutti in Brasile si ricordano dei tuoi tre gol rifilati al San Paolo nel 3-1 del derby.
“Be’, una tripletta in un derby a 19 anni la si ricorda per sempre e proprio in quella partita mi sono inventato la danza, il balletto, chiamalo come vuoi, intorno alla bandierina”.
È stato un gesto del momento, spontaneo?
“Non so come mai lo feci. Mi venne così, di improvviso, e a ogni gol cambiavo bandierina. Ne avevo fatte tre su quattro e mancavano sei/sette minuti alla fine, sono andato vicino a completare il giro del campo!”.
Conclusa la tua esperienza con il Santos, nel 1979 va in Messico nel Tecos football club di Guadalajara.
“Non sono arrivato in Italia in quell’anno soltanto perché le frontiere erano ancora chiuse. Fossero state aperte la mia carriera avrebbe potuto essere diversa, perché a volermi era Luis Vinicio che allenava il Napoli. Sono quindi andato a giocare in Messico e nell’estate successiva stavo tornando in Brasile quando dopo un incontro a casa mia condito da una serie di birre, e una cena abbondante in un ristorante, i dirigenti messicani mi dissero che mi avevano venduto in Europa. ‘L’Europa è grande’, dissi. ‘In Italia, all’Avellino’, mi risposero. ‘Avellino? E dove si trova?’. Ovviamente conoscevo Roma, dai ricordi scolastici, ma dell’Italia sapevo poco altro. Allora atterriamo a Roma e poi in macchina più di due ore per arrivare ad Avellino. ‘Oh, dove sono capitato?’ ho pensato e, invece, è iniziata un’esperienza bellissima, la mia seconda fase della carriera. Sono finito all’Avellino perché c’era stato lo scambio di panchine tra il Napoli e i biancoverdi, Rino Marchesi dall’Avellino era passato al Napoli e la direzione opposta aveva preso Vinicio, che era rimasto un mio estimatore. E quindi, proprio per Vinicio, invece di indossare la casacca azzurra ho vestito il biancoverde dei Lupi dell’Irpinia”.
Stagione 1980-1981, l’Avellino che è una provinciale deve anche partire da meno 5 per la penalizzazione per il calcioscommesse. Fate un campionato da zona Uefa, se non ci fosse stato appunto l’handicap.
“I primi giorni avevo paura, anche per la lingua, in due anni ero passato dal portoghese al castigliano e ora all’italiano. Portoghese e castigliano hanno più somiglianze, con l’italiano invece era diverso, infatti prendevo una parola, traducevo in castigliano-spagnolo e poi in portoghese. La mia fortuna è stata che ho incontrato un gruppo di compagni meraviglioso, capitanato da Salvatore Di Somma. Siamo partiti fortissimo e in poche giornate eravamo già in positivo in classifica. Abbiamo dovuto vivere l’esperienza terribile del terremoto del 23 novembre, una cosa che non si dimentica. E che anche calcisticamente ha pesato perché abbiamo dovuto giocare alcune partite casalinghe al San Paolo di Napoli. Nonostante tutto abbiamo fatto 30 punti, ci siamo salvati con una stagione da qualificazione in Coppa Uefa”.
La mitica ‘Legge del Partenio’ allora esisteva davvero?
“Certo, lì non si passava ed era dura per tutti. È come se uno viene in casa tua e si mette le tue pantofole, guarda la tua televisione, apre il frigo e beve la tua birra: non va bene. Sono in casa mia e si fa come dico io. Prima di ogni partita al Partenio, negli spogliatoi ci guardavamo in faccia e dicevamo: ‘Qui comandiamo noi e nessuno passa. Le piccole perdevano e anche le grandi soffrivano quasi tutte. In quella stagione si era salvata la Juve, con cui avevamo giocato e pareggiato 1-1 al San Paolo, mentre l’unica che non subiva la legge del Partenio era l’Inter. Non so dire il motivo, probabilmente per il tipo di gioco che praticava in quegli anni. Quell’Avellino era bravissimo a difendersi, capitan Di Somma tracciava la linea e oltre non si andava, però era ancora più forte nel ripartire in contropiede”.
La Serie A di quegli anni era il miglior campionato del mondo?
“Credo proprio di sì, solo con la riapertura delle frontiere e uno straniero per squadra erano stati ingaggiati Falcao alla Roma, Brady alla Juve, Prohaska all’Inter, Krol al Napoli, solo per fare alcuni nomi, e già non mi sembra male. Per non parlare della seconda ondata quando gli stranieri sono diventati due e via con Zico all’Udinese, Maradona al Napoli, Platini e Boniek: l’elenco di fuoriclasse è lunghissimo. Un campionato di qualità e difficilissimo, con difese e difensori implacabili”.
Il presidente di quell’Avellino era Antonio Sibilia, uno dei personaggi più particolari e di spicco di quel calcio, Come lo ricordi?
“Quando penso a lui mi commuovo sempre. Devo ammettere che il primo impatto non fu dei migliori, mi guardava e diceva a Vinicio ‘Ma chi cazzo mi hai portato?’ (Juary ce lo dice imitando benissimo la voce di Sibilia, nda). La fortuna mia è stata che nella partita di Coppa Italia con il Catania vincemmo nettamente 4-1 e segnai un grandissimo gol. Da quel momento è nato un rapporto stupendo, è stato veramente un secondo padre, e non è una frase fatta. Nella stagione successiva mi sono infortunato al ginocchio e ho saltato gran parte delle partite. Ero in scadenza di contratto e gli ho chiesto cosa volesse fare. ‘Guagliò, in che senso? Te lo dico qui: nel momento che ti vedo mettere le scarpe da ginnastica solamente per fare un giro di campo, per me il contratto è rinnovato’. Questo era Antonio Sibilia”.
Nonostante l’infortunio in quegli anni sei in giocatore in auge, però in Nazionale hai giocato poco. Soltanto la Copa America del 1979 con un terzo posto. Sognavi di essere chiamato da Tele Santana per i Mondiali di Spagna del 1982?
“Ero nel giro della Nazionale brasiliana, purtroppo mi sono infortunato al ginocchio e sono stato fuori mesi e al rientro in campo a Roma mi sono fatto ancora male. Mi ricordo che incontrai Tele Santana e mi disse proprio: ‘Dove vuoi andare con un ginocchio così?’. Può darsi che se avessi giocato con continuità e bene come l’anno precedente un posto nei 22 per Spagna 82 lo avrei trovato”.
Tornando al campionato Italiano, non resti all’Avellino ma vai a Milano all’Inter: club di prestigio ma annata da dimenticare. Cosa non ha funzionato?
“Stupirò tutti dicendo che considero quella all’Inter una delle esperienze più positive della mia carriera. Era ed è una grande società, mi hanno fatto crescere come uomo e mi hanno fatto capire che c’è differenza tra il calciatore e l’uomo. La carriera del giocatore di calcio è troppo breve, bisogna essere preparati a vivere la vita vera successivamente. Il problema è stato che non ho segnato come con l’Avellino e si sa che il pubblico interista non perdona nemmeno il più piccolo degli errori. Penso che, comunque, giocare più di venti partite in campionato in un’Inter che tra attacco e centrocampo aveva giocatori del calibro di Altobelli, Hansi Mueller, Beccalossi e Sabato, non sia male”.
Anche i due ultimi campionati in Serie A con le maglie di Ascoli e Cremonese non sono dei migliori, 7 gol in totale, e arriviamo all’estate del 1985, in cui comincia la terza fase della tua carriera, la più prestigiosa.
“Ero a casa mia a Gallarate, quando sono venuto all’Inter ho preferito abitare fuori, prima ad Appiano Gentile dove non c’era nessuno e poi a Gallarate, non amo le città caotiche come Milano: è per questo che mi è sempre piaciuta Avellino. Mi telefona Franco Dal Cin, ds dell’Inter, che mi vuole vedere in sede a Milano. Sbuffando vado in sede e, con mia sorpresa, trovo il presidente e un dirigente del Porto che mi vogliono portare in Portogallo. Torno a casa, ne parlo con mia moglie e sono pronto ad accettare. La mattina mi chiama ancora Dal Cin e mi chiede ancora di andare a Milano. Prendo la macchina, ritorno a Milano e questa volta nella sede dell’Inter trovo il presidente del Santos, la mia ex squadra, e loro mi vogliono riportare in Brasile. ‘Mi dispiace presidente – gli dico – a mia moglie piace l’idea di andare a Oporto, io ho dato la mia parola ieri e giocherò nel Porto’. Pensavo si offendesse, invece mi ha dato la sua benedizione e mi ha detto: ‘Fai bene, prova, se non ti piace hai sempre tempo per indossare di nuovo la maglia del Santos‘. E li cominciano tre anni incredibili, se me l’avessero detto prima non ci avrei creduto”.
Con i Dragoni del Porto dal 1985 al 1988 vinci tutto: campionato, Coppa e Supercoppa Portoghese, Coppa dei Campioni, Supercoppa Europea e Coppa Intercontinentale. La Coppa dei Campioni del 1987 porta indelebile il tuo segno, un assist e il gol decisivo nella ripresa contro il Bayern Monaco.
“Assist? Mi viene da ridere, io l’ho buttata in mezzo e Rabah Madjer si è inventato il colpo di tacco che è rimasto nella storia del calcio come il ‘Tacco di Allah’. L’azione del mio gol del 2-1 è da libro del calcio e ha sotto una storia particolare: Madjer era fuori dal campo per farsi curare e il nostro medico lo ha ributtato dentro, gli è arrivato il pallone con un lungo lancio dalla difesa, è andato sul fondo duellando con Brehme e ha crossato sul secondo palo, è stato bravissimo anche Futre che ha tagliato sul primo palo e ha distratto il suo marcatore, io sapevo dove sarebbe andato quel pallone, ero indeciso se andarci di testa o di piede, e poi il tocco semplice di destro che ci ha portato in paradiso e nella storia”.
Quale era il segreto di quel Porto?
“La forza del gruppo, granitica, e un profondo rispetto tra tutti. Chiunque arrivasse, fosse anche un campione sulla cresta dell’onda come Madjer, doveva entrare in punta di piedi e accettare le regole della squadra. Poi in panchina c’era un grande allenatore come Artur Jorge. Il primo tempo della finale del Prater di Vienna contro il Bayern fu il peggiore di tutta la stagione, avevamo fatto schifo. Rientrammo negli spogliatoi, gli undici titolari e i cinque panchinari, e pensavamo che avrebbe fatto un casino incredibile, invece ci lasciò 6 o 7 minuti da soli e poi entrò nello spogliatoio e chiese a ognuno di noi l’età. ‘Bene – disse -, io ne ho 41, probabilmente l’anno prossimo potremmo vincere il campionato o la Coppa di Portogallo ma, ditemi, quando ci ricapiterà l’occasione di portare a casa la Coppa dei campioni? Quindi, ritornate in campo e date tutto’. E la coppa l’abbiamo portata in Portogallo, il primo trionfo europeo del Porto”.
Se ti chiedo qual è stata la miglior gioia della tua carriera la risposta è facile: la Coppa dei Campioni.
“E, invece no. Certo il mio gol decisivo resterà nella storia della Coppa Campioni e del Porto, però la più grande gioia da calciatore è il campionato Paulista con il Santos nel 1978, a soli 19 anni e in cui fui capocannoniere sfiorando i 30 gol, 29 per la precisione. È come il primo amore, non si scorda mai”.
Hai rimpianti?
“No, tutto quello che il buon Dio mi ha concesso nel calcio è tanto, come posso avere rimpianti?”.
Il miglior allenatore che hai avuto?
“Dico Artur Jorge, senza dimenticare Luis Vinicio”.
Il miglior compagno di squadra?
“Risposta facile: Pelé, che ho avuto come compagno nella sua partita d’addio nel 1977”.
L’avversario più forte?
“Senza dubbio Vierchowod, non ho mai più incontrato un difensore come lui; ti davano la palla a destra e lui era già lì, te la passavano sull’altro lato del campo e lo trovavi un passo avanti a te, era rapidissimo. Come facesse ancora non l’ho capito”.
Adesso ti occupi di giovani con la Santos Academy: c’è uno Juary nel calcio di oggi?
“No, dicono che il calcio di oggi sia più veloce ma non è vero. C’è più potenza, ci sono giocatori con fisici impensabili alla mia epoca. Adesso in Serie A chi prenderebbe uno come me, solo all’Avellino potevano essere così folli da darmi una opportunità. Per il futuro non lo so, però non è quello che cerco con la scuola calcio della Santos Academy. Siamo in Brasile e in Italia, apriremo anche in Francia, soprattutto per far divertire e insegnare calcio ai bambini e ai ragazzi dai 5 ai 15 anni. Per essere Juary basta giocare a calcio”.