Fallire e creare nella Silicon Valley

1 Marzo 2012 di Andrea Ferrari

Distinguerli dai coetanei ancora sui banchi dell’università è praticamente impossibile, ma Augusto Aghi Marietti e Marco Palladino, oltre ad averla abbandonata poco dopo averla cominciata, hanno appena raccolto un milione e mezzo di dollari da investitori come Jeff Bezos di Amazon ed Eric Schmidt di Google. Un round di finanziamento che servirà a Mashape, la loro creatura, per strutturarsi e crescere ulteriormente così da entrare nel novero delle startup di successo nate nella Silicon Valley. La fama iniziale però l’hanno ottenuta più di un anno fa per una lettera pubblica dai toni molto duri sul “sistema Italia” scritta nel momento in cui decisero di tentare l’avventura negli Stati Uniti e che innescò un’aspra discussione nel mondo tech italiano.

Non posso non chiedervi un ricordo di Steve Jobs, un mito non solo per chi, come voi, lavora nella Silicon Valley.
Augusto: “Steve Jobs è da sempre un mio idolo per un motivo semplice: ha saputo rendere grande Apple per due volte, prima fondandola e portandola al successo e poi dopo quasi dieci anni di “esilio” l’ha presa sull’orlo del precipizio e l’ha fatta rinascere rendendola ancora più grande. Un’impresa del genere è riuscita a compierla soltanto lui.
Torniamo alla vostra creatura, cos’è Mashape e come è nato?
Marco: “E’ innanzitutto un percorso che è nato partendo da un’idea diversa da quel che c’è online attualmente. Ora Mashape vuol esser un market per le Api, cioè per componenti software che possono essere integrate tra di loro, ad esempio se uno sviluppatore ha bisogno di un programma per inviare sms può prenderlo sul nostro market invece che svilupparlo da zero per proprio conto. Il progetto s’è evoluto grazie ai feedback delle persone incontrate strada facendo. Il nostro grosso errore iniziale è stato quello di lavorare su una piattaforma che aveva molte più funzionalità, ma in cui c’erano cose che in sostanza non servivano. 
Avete quindi proseguito seguendo quel che vi diceva il mercato…
Marco: “Sì, il fallimento o il successo di un’azienda son molto legati alla velocità con cui si comprende ciò che vogliono gli utenti, prendi Youtube ad esempio che all’inizio era un solo meeting website, serviva cioè a trovarsi un partner amoroso, oppure Paypal che ha cambiato modello di business addirittura quattro volte.” 
Immagino che abbiate vissuto anche momenti di difficoltà quando avete deciso di fare il grande passo ed espatriare in California, qual è stato il punto più basso?
Augusto: “Il tempo passato nei motel quando avevamo quasi finito i soldi, mancava un mese alla partenza e non avevamo trovato ancora un investitore interessato. Dormivamo in tre nel letto e non avevamo la cucina, quindi eravamo obbligati ad usare un microonde e per dieci giorni abbiamo mangiato quelle scatolette orrende con fagioli, riso e wurstel. Lì ci sembrò di esser davvero sull’orlo del fallimento tanto che scrissi un post sul nostro blog in cui descrivevo quel momento disperato… alla fine quel post ci portò bene perché da lì a poco il vento girò a nostro favore. 
Secondo voi il modello Silicon Valley è in qualche modo replicabile altrove?
Marco: “No, anche perché ci son voluti più di settant’anni per creare un ecosistema come quello odierno. Ci sono dei dati oggettivi che mancano altrove come la grandezza del mercato a disposizione per potere fare massa critica sin dall’inizio, un mercato di M&A molto evoluto, una grande propensione al rischio da parte di chi investe, una borsa come il Nasdaq. E poi c’è una mentalità agli antipodi di quella italiana. Là il fallimento non è ritenuta un’onta, ma una tappa di crescita. A Stanford non assumono un professore che non sia passato da un fallimento imprenditoriale. 
Una Silicon Valley che a giudicare da alcune scene del pluri-premiato “The social network” pare non essere, tra feste selvagge e groupie, solo un covo di nerd…
Marco: “In realtà quella vita da rockstar che pare aleggiare sulla Silicon Valley in “The social network” ci è sembrata pura finzione cinematografica, pur essendo un luogo piacevole si lavora tanto e di ragazze in giro se ne vedono ben poche, tantomeno le groupie…
Diverse voci autorevoli parlano di una nuova internet bubble, che impressione avete vedendo il fenomeno dall’interno?
Marco: “C’è un fenomeno del genere per le aziende a livello seed, cioè quelle startup da centomila dollari a un milione che oggi hanno valutazioni molto alte, forse troppo alte, mentre per quelle aziende in fase più avanzata non si può parlare di una bolla, dato che lì subentrano metriche di un certo peso, revenues, eccetera, e poi non siamo più in una fase, come nella prima bolla, dove si ipervalutavano aziende che esistevano a malapena sulla carta. 
E le valutazioni date ad aziende come Facebook (oltre 70 mld) o Twitter (più di 10 mld.) che non fa neanche 100 milioni di fatturato, vi paiono sensate?
Augusto: “Facebook è un’azienda che già macina utili notevoli, Twitter invece è un’azienda che fattura ancora poco, ma nel suo caso, come nel settore IT in generale, si tende a dare un grande peso economico ai dati sugli iscritti di cui dispone, d’altronde Bill Gates diceva che le informazioni non sono che un altro un tipo di denaro.” 
Fra 10 anni come vi vedete?
Augusto: ”Non ci vediamo, viviamo giorno per giorno e dovrebbe esser così per tutti, vedo tante persone che si sentono come dentro delle fortezze solo perché lavorano in grandi corporation. Secondo me sbagliano, viviamo in un mondo che evolve in modo velocissimo e la grandezza non deve dare troppa sicurezza, guarda la fine che ha fatto la Enron...”

Andrea Ferrari, da Los Angeles (29 febbraio 2012)

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