Il fuoco sacro di Russell

13 Marzo 2007 di Roberto Gotta

1. Parlare degli Oakland Raiders vuol dire infilarsi in una serie di luoghi comuni così lisi da essere, paradossalmente, veri: i tifosi più bizzarri della NFL, uno dei proprietari più esigenti e difficili, una filosofia di gioco scolpita nella pietra e nella storia del football, anche se non esattamente coronata da successo costante. Passano gli anni e tutto, gattopardescamente, resta uguale modificandosi, ovvero cambiano i nomi ma il contenuto è il medesimo. Al Davis ora ha 76 anni, ma è sempre il proprietario della squadra, quello che decide tutto, fasciato nei suoi abiti da Elvis sobrio (foto): ha deciso, decenni fa quando allenava la squadra, che i Raiders avrebbero giocato sempre sfidando l’avversario, cercando sempre il lancio lungo (la corsa lunga, se proprio l’alternativa è impossibile), difendendo con spirito da fuorilegge. Nonostante la posizione geografica del club, niente West Coast offense, che del resto è solo un nome e comunque alla nascita dei Raiders non esisteva, ovvero niente filosofia d’attacco basata su lanci corti e costante ritmo che conquista yards a manciate piuttosto che a vagonate. Non per nulla quando si è convinto a prendere allenatori che si discostassero dalla sua filosofia Davis si è sempre trovato male, anche se almeno in una circostanza, di recente, una sua incompatibilità con un coach e la sua filosofia offensiva gli si è ritorta contro. E’ il gennaio 2003, Super Bowl di San Diego, i Raiders ci arrivano un po’ a sorpresa ma nella sfida contro Tampa Bay si dimostrano chiaramente inferiori e soccombono 48-21. L’head coach dei Buccaneers? Jon Gruden, lasciato andare dopo la stagione 2002, quando i Raiders erano stati eliminati ad un passo dal Super Bowl da New England grazie anche ad una chiamata arbitrale così controversa che la relativa regola venne poi modificata dalla NFL per prevenire altri dubbi. E tra le ‘vittime’ di Davis che hanno poi fatto fortuna altrove c’è anche Mike Shanahan, andato poi ai Denver Broncos con i quali ha ‘solo’ vinto due Super Bowl e continua ogni anno, nelle due gare di division, a fare un mazzo così ai Raiders, sogghignando pure.
2. Ora, chiusa una disastrosa annata 2006 (2-14), i Raiders ripartono con alcune mosse interessanti. Primo tra tutti il coach, scelta rischiosa: Lane Kiffin (foto), che faceva l’allenatore dell’attacco di Southern California (una garanzia) ma ha solo 31 anni, età che non dovrebbe contare quando si è bravi, ma che può pesare nei rapporti con uno come Davis. Kiffin, l’avranno intuito i più esperti, è figlio di Monte Kiffin, coach NFL di lunga carriera ed attuale defensive coordinator di Tampa Bay. Può spiacere che siano tanti i ‘figli di’ che trovano lavoro (chi si crede di essere la NFL, SkyTg24?), ma a volte è anche questione di essersi ‘allenati’ a fare i coach già in giovane età, non solo di pura raccomandazione in stile ‘aumma-aumma’. Kiffin avrà per l’attacco armi nuove, e non solo perché ha rinnovato lo staff di allenatori del reparto: il deludente quarterback Aaron Brooks (0-8 da titolare) è stato lasciato libero, mentre dal mercato dei free agent sono arrivati Dominic Rhodes e Justin Griffith, ovvero uno dei due running back degli Indianapolis Colts campioni NFL e un fullback, destinato dunque ad aprirgli la strada, solido ed affidabile come testimonia il fatto che la sua ex squadra, Atlanta, è stata la migliore nelle corse in tre delle quattro stagioni in cui Griffith ne ha vestito la maglia. Rhodes ha già 28 anni, età non verdissima per chi ricopre un ruolo pesante, ma quando era riserva di Edgerrin James aveva giocato pochino e dunque è più fresco di quel che si potrebbe pensare. In più, dovrebbero ricucirsi i rapporti con Jerry Porter, ricevitore di lusso che con il precedente coach Art Shell aveva rotto da tempo, e in teoria ci sarebbe sempre Randy Moss, turbolento, inaffidabile e insopportabile quando mette il broncio, ma grande talento, seppur desideroso di cambiare aria.
3. Ma soprattutto si attende con una certa curiosità di sapere se i Raiders, che hanno la prima scelta nel draft del prossimo 28-29 aprile, chiameranno JaMarcus Russell (foto), quarterback che ha deciso di lasciare Louisiana State con un anno di anticipo. Russell, alto e grosso (1.94 per 118 chili), sembra disegnato dal progettista per i Raiders, in effetti: chi l’ha visto in allenamento e nei provini giura che è in grado, standosene con i piedi sulla linea delle 20 yards (difensive, ovvio), di lanciare il pallone fino alla zona di touchdown opposta (end zone), dunque più di 80 yards pulite di lancio e dunque di potenza. Chiaro che in partita le varianti della pressione difensiva e delle possibilità di Russell stesso di poter piantare il piede giusto non gli daranno che rare opportunità di dispiegare tale vigore, ma intanto il dato è significativo. Il fatto che la logica dica che Russell ‘deve’ essere scelto dai Raiders getta però inquietudine, perché non sempre la logica ha governato le decisioni di Davis, mai restio alle controversie (è in perenne causa con la NFL per questioni territoriali, di cui parleremo in altro momento), ed allora si teme che un bocconcino come Russell venga lasciato scorrere verso la posizione numero 2, alla quale Detroit, guarda un po’, cerca un quarterback. Sul conto di Russell, peraltro, girano voci strane, e non ci riferiamo alla sua apparente tendenza a mettere su chili: è naturale che nei quasi quattro mesi tra fine stagione di college e draft si senta dire di tutto, ma stavolta non si parla di problemi con la legge bensì di una presunta, perniciosissima mancanza di amore per il football: in pratica, riprendendo frasi già udite per altri anche in altri sport, qualcuno ritiene che Russell giochi a football perché il suo fisico glielo permette e perché comunque è sport a lui gradito, ma senza il fuoco ardente di un Peyton Manning che, se non giocasse, si iscriverebbe a tutti i Fanta-Football di questo mondo. E si teme dunque che al primo contrattone della sua vita Russell si ritenga già ‘arrivato’, senza sentire la motivazione di crescere ancora, un po’ come fece il sempre vituperato Ryan Leaf, scelto nello stesso anno di Manning (1998) ma presto decaduto dal suo trono di potenziale campione ed ora coach di… golf al college. Russell – che svolge a Louisiana State il provino privato per gli osservatori proprio mercoledì 14 marzo – ribadisce di essere semplicemente un tipo tranquillo (non ha aggiunto “un classico ragazzo del sud”, altrimenti il luogo comune sarebbe stato eccessivo) con la competitività interiore più che esteriore, e del resto chi lo ha visto rabbiosamente portare LSU alla vittoria (41-14) nel Sugar Bowl contro Notre Dame di Brady Quinn, il suo grande rivale per la scelta numero 1, può testimoniare che il ragazzo, capace per la sua forza fisica di lanciare anche con gente attaccata alla maglia, un pochino di voglia di competere ce l’ha. Ricapitolando, allora, in questa invasione di American Bowl da parte dei Raiders. L’attacco sulle corse, lo scorso anno 29esimo su 32 squadre, si dota di un fullback di grande efficaca e di un running back di provato rendimento (anche se un po’ turbolento fuori dal campo); la linea d’attacco, che nel 2006 ha concesso l’orrendo numero di 72 sack (atterramenti del quarterback da parte della difesa, 4.5 a gara) ottiene Jeremy Newberry, peraltro 30enne ed un po’ acciaccato dopo 10 stagioni di battaglie, che andrà a dare a Kiffin maggiori opzioni in quella rimescolata che il coach intende dare al reparto; il gioco di lanci potrebbe avere Russell e riavere Porter in forma e Moss (forse) in voglia. C’è caso allora che si possa tornare a guardare le serie di attacco dei Raiders senza mettersi le mani sui capelli, anche se con Moss non si può mai dire.
4. Una curiosità letta sul quotidiano Boston Globe. Robert Kraft (foto), proprietario dei New England Patriots e uomo apparentemente incapace di indossare camicie che non siano azzurre con colletto bianco, che lo fanno sembrare un uomo d’affari americano anche perché E’ un uomo d’affari americano, ogni anno trasport

a in Israele un gruppo di persone che non vi era mai stato, e stavolta della spedizione faceva parte anche Paul Tagliabue, ex commissioner della NFL e uomo che dovrebbe andare sempre in giro con il sole in fronte, visto l’enorme contributo che ha dato all’ascesa della NFL al primo posto tra le leghe professionistiche statunitensi. La presenza di Tagliabue era dovuta al lancio del primo campionato israeliano di football, con squadre situate in sole quattro città (Haifa, Kfar Saba, Gerusalemme e Tel Aviv) ma partite giocate tutte in un unico stadio, a Gerusalemme. Si chiama Kraft Family Stadium…
5. Questa non c’entra niente, ma l’abbiamo trovata su un libro di oltre vent’anni fa, ora pressoché introvabile ed è magari non divertente, visto che riguarda un infortunio di gioco, ma bizzarra. Riguarda George Halas alias Papa Bear (foto), scomparso nel 1983, anima e quasi fondatore dei Chicago Bears nonché padre di Virginia McCaskey, attuale proprietaria della squadra. Halas giocò nei Bears dal 1920 al 1929, a partire da quando si chiamavano ancora Decatut Staleys (Decatur è una città del sud dell’Illinois), e un giorno, nel ruolo di defensive end, si trovò a puntare da dietro, dal lato cieco, il quarterback dei New York Giants, Joe Guyon, che era di sangue indiano, pellerossa se vogliamo semplificare per noi italiani. Halas già pregustava il sack e magari anche il fumble, ma all’ultimo momento Guyon effettuò il lancio e si girò all’improvviso verso Halas, colpendolo con una ginocchiata che gli incrinò alcune costole. «Dai, Halas – gli disse poi, vedendolo dolorante a terra – Non penserai di poter sorprendere alle spalle un pellerossa…».

Roberto Gotta
chacmool@iol.it

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