Free, la musica dopo gli Mp3

6 Ottobre 2016 di Paolo Morati

Free

“Nei dormitori universitari di una nazione intera, gli hard disk delle matricole si riempirono fino all’orlo di mp3 piratati. Le istituzioni accademiche furono complici involontari di questo fenomeno, e la pirateria musicale divenne negli anni Novanta ciò che la sperimentazione con le droghe era stata negli anni Sessanta: qualcosa che spinse un’intera generazione a ignorare sia le norme sociali sia le leggi vigenti, senza curarsi delle conseguenze”. È questo sostanzialmente il momento decisivo di Free (Einaudi Stile Libero), il libro inchiesta di Stephen Witt, sottotitolato La fine dell’industria discografica, l’inizio del nuovo mondo musicale.

Una fine e un inizio dunque, con quello spartiacque generato dalla diffusione della compressione mp3, frutto del lavoro di un team capitanato da Karlheinz Brandenburg, nonché della crescita esponenziale di Internet e di strumenti informatici sempre più alla portata economica e pratica dell’utente non solo smanettone, e a ‘servizi’ come Napster. Il tutto in un settore dove la pirateria c’era sempre stata, seppure con mezzi e metodi fisici e quindi, teoricamente, più controllabili.

Anche in Italia del resto proliferavano le bancarelle dove stazionavano musicassette e poi CD con copertine fotocopiate, mentre per un breve periodo goderono di gloria i noleggiatori. L’idea era mutuata da quella delle videocassette con il problema che i clienti magari non si limitavano all’ascolto per quei pochi giorni pagati ma finivano per duplicarsi i dischi via masterizzatore spendendo un decimo rispetto all’acquisto di un originale.

In Free si racconta però del passo ulteriore e decisivo, quello della nascita di una nuova generazione di ragazzini che – come si legge nelle pagine – “non avevano mai pagato per un cd, consideravano il file sharing una cosa naturale e vedevano l’acquisto di un disco come un’antiquata forma di mecenatismo”. E di come questo è potuto succedere, con il fulcro in organizzazioni clandestine e nascoste nei meandri della rete che si scambiavano messaggi sulle chat IRC e facevano a gara a rilasciare per prime i leak di dischi non ancora pubblicati. È la storia di Brandemburg e del suo team, scintilla inconsapevole del fenomeno, e di una guerra a distanza tra personaggi come il potentissimo discografico Doug Morris e il pirata dei pirati, l’operaio Bennie Lydell Glover con tutte le sue manie, fino alle cause legali e alle indagini dell’FBI capaci di scovare i sospetti dopo anni di ricerche, conclusesi con assoluzioni e condanne; incapaci però di fermare il drammatico cambiamento che l’industria discografica è stata comunque destinata a subire perlomeno commercialmente, in parte per quella rivoluzione digitale che oggi si è ormai definitivamente compiuta.

Il libro di Stephen Witt supera infatti la pura cronaca, fornendo diversi spunti sull’evoluzione del mercato musicale, con il passaggio dall’idea pensata di album a quella della rincorsa all’hit del momento, al concerto oggi sempre più veicolo di guadagno rispetto alle vendite di dischi, al mondo del rap capace di muovere numeri da capogiro, fino alla resa definitiva ai video pubblicati online, agli store digitali e, infine, ai servizi di streaming. Un viaggio da romanzo, dove si leggono storie di tutti i giorni di protagonisti inaspettati, non necessariamente nerd in piena adolescenza o star da disco di platino. C’è dentro la tecnologia ma anche l’industria discografica e i suoi meccanismi marketing, i successi e il declino, le regole che cambiano e i comportamenti, tra fiuto, cecità e rischi e un’inevitabile trasformazione. Non ci stupiremmo se ne venisse tratto un film.

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