Ristoranti, sapessi com’è strano riciclare a Milano

12 Febbraio 2019 di Dominique Antognoni

Sembra che a Milano ci siano solo ristoranti, che tutti parlino solo di ristoranti e ristorazione, che tutti sognino di aprire un ristorante come risposta ai problemi della loro vita. E l’impressione non è troppo diversa dalla realtà, anche se rimanere aperti non significa che il locale funzioni. Semplificando al massimo, la ristorazione milanese vede tre categorie di protagonisti: i ristoratori veri, quelli che vivono con gli incassi giornalieri, i locali aperti dai fondi di investimento (che è un modo come un altro per investire i soldi, oggi in ristoranti domani in squadre di calcio oppure aziende di moda) e i ristoranti aperti per motivi poco puliti (soldi arrivati da chissà dove e da chissà chi, in breve riciclaggio). Noi nei ristoranti praticamente ci viviamo, ma non occorre essere esperti o aspettare la Guardia di Finanza per individuare alla prima occhiata gli appartenenti alle tre categorie. Eppure ancora sentiamo persone che si stupiscono di cambi di insegna o di personale (mantenendo però costante la regione di origine, a volte anche il paese) ogni tre mesi, per non parlare di chiusure repentine con cellulari staccati e recensioni rimaste grottescamente in certe guide.

Sono tre categorie ben distinte, ma soltanto una ci rimette: quella dei veri ristoratori. Anche quando hanno il locale pieno, perché si confrontano comunque con chi è dopato. Le altre due categorie si possono infatti permettere di andare in pareggio e perfino di perdere un po’. Se questo meccanismo è intuitivo per chi usa soldi sporchi, l’importante è riciclare e pazienza se nel percorso si lascia per strada qualcosa, non lo è per in fondi di investimento che sempre più stanno mettendo soldi veri nella ristorazione, soltanto perché è di moda farlo. I bilanci non mentono: molti ristoranti di quelli che vedete recensiti e omaggiati dai giornalisti sono in perdita ed in una presunta economia di mercato dovrebbero essere già falliti di un pezzo. Sono tenuti in vita artificialmente, perché uno dei capisaldi del private equity, così ci hanno spiegato alcuni di questi investitori, è quello di presentarsi sempre bene, usando magari il nome di un chef famoso (pagato per il disturbo, naturalmente), e di vendere al momento giusto. In altre parole, bisogna trovare uno scemo che si accolli il carrozzone un momento prima del disastro. Non è un discorso teorico, perché qualcuno di questi personaggi l’abbiamo anche conosciuto: ricchi signori, spesso di fuori Milano, con soldi fatti in settori poco mediatici e che a sessant’anni vogliono fare i fighi a Milano. Ecco, questo è il profilo del pollo cercato dai fondi, che quasi mai riescono a far funzionare la gestione ordinaria di un ristorante. Solo per la cantina, parliamo di posti di alto livello, occorrono anni di studi e di contatti personali…

Ma chi se frega se i fondi, gli stupidi o i mafiosi perdono un po’ di soldi? Giusta domanda. Il guaio è che i ristoranti dei fondi e quelli dei riciclatori rosicchiano, nel breve periodo, la clientela dei ristoratori veri: e riconquistare un cliente è più difficile che perderlo. Certo, nessuno può impedire ad un fondo di investire come meglio crede, non fanno niente di illegale. Però rovinano quelli bravi. Tradotto: un vero ristoratore non troverà mai un milione di euro per ristrutturare la sala e la cucina (stiamo facendo una cifra bassa, per gli standard milanesi), i fondi invece questi soldi li mettono in un secondo. C’è da raddoppiare lo stipendio del pasticcere? E facciamolo, tanto se lo paghiamo a sei mesi i suoi soldi non li vedrà mai. La situazione rischia di sfuggire di mano, nel senso che il ristoratore, pur di stare al passo, è costretto a fare delle operazioni folli e a (metaforicamente, ma a volte no) suicidarsi.

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