Sconfitta e rivoluzione

5 Marzo 2009 di Jvan Sica

Nel febbraio 2007 la casa editrice Limina pubblica il romanzo-saggio di Luigi Bolognini “La squadra spezzata”, che racconta la storia di Gabor, un ragazzo ungherese degli anni ‘50 che cresce nel mito della squadra d’oro e finisce per capire, nel momento in cui arriva la sconfitta ai Mondiali del 1954 in finale contro la Germania Ovest, che quell’oro era solo una patina usata dal regime comunista per nascondere la sua barbarie. E con Gabor un intero popolo. A distanza di due anni abbiamo contattato Bolognini.

L’Ungheria, come esponente della tradizionale scuola danubiana, aveva avuto sempre grandi interpreti e squadre temibili. Ma quale è stato il plus fondamentale che ha dato il là a quel gruppo di campioni e a quella squadra perfetta?
Anzitutto il fatto che la generazione nata tra le due guerre mondiali sia stata una nidiata clamorosa di fenomeni. Ogni tanto succede, e non c’è un perché, succede e basta. E poi il fatto che il regime filosovietico avesse cercato di imitare l’Urss dei piani quinquennali anche nello sport, mettendo a disposizione dei suoi calciatori e dei suoi tecnici (Sebes era un grande allenatore, l’ultimo di una grande scuola che aveva prodotto anche Arpad Weisz) la possibilità di realizzare un progetto di lungo termine in modo quasi scientifico. Tutto fu organizzato a misura delle richieste di Sebes, compreso il campionato di calcio, dove gli allenatori ebbero il consiglio (sarebbe meglio dire l’ordine) di giocare secondo lo schema della Nazionale. C’erano anche motivi di propaganda, ovviamente: i successi di quella squadra diedero lustro all’intero regime, sia a livello interno che estero. E altrettanto ovviamente l’insuccesso lo travolse, innescando la rivolta che poi sarebbe scoppiata nel 1956.
Il calcio e lo sport in generale sono da sempre usati per scopi politici. Come può emanciparsi lo sport da questa catena?
Temo che la prima domanda sia senza risposta, nel senso che è appunto sempre stato così e sempre lo sarà, anche se non ci piace. Però non estremizzerei la cosa, nel senso che accanto a un Berlusconi, un Videla, un Rakosi o un Mussolini (mischio esempi diversissimi tra di loro, ovviamente), ci sarà sempre chi usa lo sport per altri motivi, magari poco nobili comunque, tipo fare soldi, oppure perché spinto da sincera e disinteressata passione. L’importante è saperlo, e a quel punto regolarsi con la propria coscienza: qualcuno farà prevalere la passione politico-civile su quella sportiva, qualcuno farà il contrario, qualcuno si sentirà un utile idiota e qualcuno no. L’importante è sapere cosa c’è dietro la propria squadra, la propria passione, e trovare un compromesso con se stesso. Senza portare il cervello all’ammasso. Oppure portandolo, ma facendolo comunque con consapevolezza. Il calcio come propaganda politica non mi piace, ma in fondo che differenza c’è dal calcio che fa propaganda a un marchio di una bevanda, a un telefonino o a uno stile di vita? Nel migliore dei mondi il calcio sarebbe il calcio e lo sport sarebbe lo sport, ma questo non è il migliore dei mondi, o forse è il migliore dei mondi possibili, che è diverso. Ripeto, le armi con cui ci si può difendere sono la consapevolezza e la coscienza: con consapevolezza e coscienza si può anche scegliere di suicidarsi, se lo si vuole.
Perché, secondo lei, il calcio ha questo virale conservatorismo impresso a fuoco che può servire a tenere a bada il pensiero differente?
Per il semplicissimo motivo che il tifo è anzitutto e soprattutto conformismo. Lo dico in senso neutro, oggettivo. In uno stadio si trova tutta gente che la pensa alla stessa maniera, tifa la stessa squadra, reagisce in modo uniforme alle azioni di gioco. Il diverso pensiero è poco ammesso, e forse è giusto così, nel senso che le regole sono quelle. Dopodiché aggiungo che ho parlato di Mussolini e di Videla, ma in realtà sarei potuto risalire agli antichi imperatori romani, “panem et circenses” o ai Borboni che regnavano a Napoli, “feste, farina e forca”. Insomma, la regola dei regimi è sempre stata quella di riempire la pancia – o almeno levare la fame nera – ai propri sudditi e di dargli qualcosa per distrarsi, per non fargli notare l’assenza di libertà e di diritti. Cioè i circenses, i giochi, le feste, la forca, e nei tempi moderni lo sport. E i regimi potevano essere anche di sinistra, vedi per l’appunto quelli ungheresi e di tutto il mondo sovietico.
Lei scrive che la sconfitta di Berna nella finale del Campionato del mondo contro la Germania Ovest servì a togliere al regime l’ultima maschera: secondo lei può ancora una delusione sportiva far riflettere un intero popolo sulla sua condizione?
Sì, ma è difficile. Anzi, in realtà a mia memoria quello ungherese è stato l’unico caso in cui è successo qualcosa di simile, ma se è accaduto è perché il regime ungherese aveva puntato tutto sul calcio, senza cercare altre forme di controllo sociale e politico che non fossero la violenza e la delazione. Lungi da me il difendere Mussolini e il suo regime, ma se anche l’Italia non avesse vinto i Mondiali del 1934, il fascismo non sarebbe certo caduto né ci sarebbero state proteste. Perché in quel momento era indubbio, e in questo mi confortano gli storici, che il consenso fosse vero ed effettivo. Non sono certo le delusioni sportive a far riflettere un popolo sulla propria condizione. Al limite può valere il contrario, cioè le vittorie esaltano la considerazione che un popolo ha di sé. Benché pure questo non valga sempre, basti pensare al Mondiale 2006 che non ha certo migliorato le cose in Italia, a differenza del Mundial ’82 che fu un po’ il segno che la festa poteva incominciare dopo gli anni bui del terrorismo e dell’incertezza economica. Ripeto, l’unico caso a mia memoria di una delusione sportiva che danneggia in modo serio un regime è proprio quello dell’Ungheria nel 1954.
Grosics, Buzanszky, Lorant, Lantos, Bozsik, Zakarias, Budai, Kocsis, Hidegkuti, Puskas, Czibor. Tra questi chi erano le vere colonne della squadra e perché?
Facile dire Puskas, e infatti lui era sicuramente la stella, non solo per talento, ma anche per carisma. Ma ci sono almeno altri quattro giocatori che vanno citati. A centrocampo Bozsik, regista di stampo classico, uno di quelli capaci di lanci di 40-50 metri sui piedi degli attaccanti, ma anche pronto ad arretrare in difesa quando serviva e perfetto ragioniere in campo, spettava a lui applicare al momento gli schemi migliori. Come molti registi aveva cervello e infatti diventò presidente del Comitato Olimpico ungherese una volta smesso di giocare. Poi Hidegkuti, che a livello tattico era la chiave della squadra con i suoi arretramenti a centrocampo che risucchiavano il difensore che lo marcava, aprendo spazi per gli inserimenti di Puskas e Kocsis. E poi le due ali, Budai e Czibor, che al talento individuale (soprattutto Czibor, maniaco del dribbling anche irrisorio) univano la capacità di trasformarsi da centrocampisti in punte effettive, allargando il gioco e facendo impazzire i terzini. Grazie a questi giocatori quello che potremmo definire con gli schemi attuali una sorta di 3-5-2 poteva trasformarsi in un 4-2-4 micidiale per talento, forza e imprevedibilità.
In cosa la strategia e i met
odi di gioco ungherese anticiparono il calcio contemporaneo?
Il giocatore più moderno era appunto Hidegkuti, che in un calcio come quello attuale in cui le punte devono spesso tornare ad aiutare il centrocampo avrebbe spopolato. L’altra grande innovazione fu quella del calcio totale, nel senso che i giocatori sapevano fare di tutto: Hidegkuti appunto il centrocampista, Boszik lo stopper, Budai e Cizbor i centrocampisti, e così via. C’era sempre un uomo in ogni posto del campo che sapeva disimpegnarsi, in qualche maniera. Anche perché la tecnica individuale era di gran livello: sapevano tutti dribblare e sapevano tutti giocare d’esterno (e non a caso il tocco d’esterno era detto “all’ungherese”, ai tempi). E Sebes anticipò il calcio contemporaneo anche nell’esasperata preparazione di ogni match, ad esempio misurando l’erba di Wembley e tagliando quella dei prati ungheresi alla stessa identica altezza per meglio abituarsi ai rimbalzi del pallone. Senza contare l’aspetto tattico, ma lì forse più che bravura ungherese fu stoltaggine altrui. In un epoca pre o paleo-televisiva, non c’erano molte informazioni che girassero sugli assetti tattici delle squadre, c’era una sorta di cavalleria per cui il 9 era il centravanti, il 5 lo stopper, l’8 e il 10 gli interni e così via. Sebes se ne fregò bellamente proponendo una squadra in cui il 9 era un centrocampista, il 5 il regista, l’8 e il 10 le due punte, per cui molti allenatori dovevano improvvisare le contromisure direttamente sul campo. E non c’era neanche una critica sportiva degna di questo nome, i giornalisti preferivano raccontare le partite usando roboanti aggettivi che analizzandole tatticamente. Il primo vero esperto di tattica fu proprio Gianni Brera, che infatti amò l’Ungheria di Puskas.
Jvan Sica
(per gentile concessione dell’autore, la versione integrale dell’intervista è su Letteratura sportiva)
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