La tribù urbana vista da Ermal Meta

24 Marzo 2021 di Paolo Morati

Ermal Meta è uno di qui nomi che ci vengono in mente quando dobbiamo citare un’eccezione nelle discussioni sul poco che la musica di oggi ha (avrebbe?) da offrire. Prima componente di band, poi autore per diversi artisti e quindi finalmente protagonista in proprio dei suoi lavori, Meta ha raccolto consensi presso un pubblico piuttosto trasversale. Cosa non facile in un momento storico in cui soprattutto tra i veri giovani la parola d’ordine da usare sembra essere trap, a tutti i costi.

Ne scriviamo dopo aver ascoltato più volte il suo nuovo album intitolato Tribù urbana. Undici tracce compreso il brano classificatosi al terzo posto al Festival di Sanremo, e che si apre con Uno, canzone di ‘gruppo’ dall’andamento corale che ci immaginiamo di canticchiare per la strada. Tema: la condivisione universale, “Le senti o no le nostri mani che sollevano l’aria all’unisono?”. La successiva Stelle cadenti sembra invece uscita direttamente dagli anni Ottanta (ed è un gran bene), strofa e ritornello arioso, di quelli che piacciono a noi, che ci riportano al migliore pop possibile, con tappeti sintetici, per descrivere tuttavia una storia tormentata: “Se potessimo iniziare le storie all’incontrario, così verso la fine potersi vivere l’inizio”.

Arriviamo quindi a Un milione di cose da dirti, ballata classica e profonda (“Con le mani nel fango per cercare il destino, tu diventi più bella ad ogni tuo respiro, e mi allunghi la vita inconsapevolmente”) battuta nella finalissima causa televoto dopo essere stata in testa per tutte le altre serate. Ma Ermal Meta il Festival lo aveva già vinto un paio di anni fa e alla fine è finita come per Francesco Gabbani nel 2020.

Si torna di nuovo al pop più puro con Il destino universale, cenni anche ai suoi 13 anni (quando Ermal Meta si trasferì in Italia, “Ermal ha tredici anni e non vuole morire della vita non sa niente tranne che la vita è importante”) per un messaggio sull’importanza della vita, simbolo di speranza già proposta in passato nei suoi testi, e il coraggio di agire nonostante le difficoltà in un “viaggio circolare”. È l’amore tra ragazze nel 1987 la storia di Nina e Sara (“Tra l’afa e il miraggio dell’asfalto rovente, incontra uno sguardo e si sente bruciare”), con un finale che resta (forse) sospeso.

Dopo un breve salto up tempo con No satisfaction, compreso un uso dell’odiato da noi vocoder correttamente contestualizzato (vero trapper?), ad osservare la condizione delle nuove generazioni, l’album scende ancora di ritmo in Non bastano le mani, altra ballad su un cambiamento sofferto (“Ogni tramonto ha la sua dose di bellezze e dolori”), per poi riprendere in Un altro sole, “nel fango della stessa sorte”, con speranza.

Gli invisibili è dedicata a chi vive la vita male male ed è tra gli ultimi della fila mentre Vita da fenomeni è il racconto dei momenti che cambiano, in cui “ormai non siamo buoni a fare tardi e non siamo più tanto bravi a fare i giovani”, riflessioni sul tempo che muta per gli innamorati del passato. Da far riflettere. Tribù urbana si chiude con la delicatissima Un po’ di pace, dedicata a una persona che basta sapere che c’è.

In definitiva un bel disco, questo nuovo di Ermal Meta, per un autore ben centrato e destinato definitivamente a caratterizzare il nostro tempo artistico venendo da una lunga gavetta, nell’era dello streaming e del singolo usa e getta quando fare un album appare ormai una vera e propria scommessa. Ma il vento sembra stia cambiando. O almeno lo speriamo.

Share this article
TAGS