Cinema

Il ragazzo di campagna

Stefano Olivari 26/03/2024

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Fra i film di culto anni Ottanta uno di quelli che ci ha sempre lasciato piuttosto freddi è Il ragazzo di campagna. Cosa che non ci ha impedito di rivederlo più volte, nei giorni scorsi anche su Netflix come risposta alle serie woke, cioè ormai quasi tutte, fra poliziotti bianchi corrotti-violenti e neri spacciatori (in alternativa giudici della Corte Suprema) di grande umanità e spessore.

Inutile raccontare la trama di un film celeberrimo, con un Renato Pozzetto in grande forma e che comunque dal nostro punto di vista vale sempre un ripasso, fra immagini d’epoca di Milano, le nostre preferite il traffico automobilistico in Corso Vittorio Emanuele ed il tentativo di suicidio davanti alla Canottieri Milano, ed una straordinaria meteora come Donna Osterbuhr, la cui carriera cinematografica di fatto si riduce a questo film di Castellano & Pipolo e ad una particina nel mitologico Yado (fa Kendra, la sacerdotessa). Divertente notare come già nel 1984 fosse materia di discussione il tema ‘Milano, città con gli affitti troppo cari per appartamenti troppo piccoli’.

Oltre al poster di Platini commovente ricordare come fosse segno di distinzione essere diplomati, quando oggi non fa notizia nemmeno la laurea (e non parliamo di Unicusano). Frase di culto della madre di Pozzetto-Artemio, quando il figlio le confessa di essere innamorato di lei e non della dimessa (ma nel finale avrà un suo perché, secondo il teorema di Gegia) Maria Rosa, dicendole che è diplomata: “Alura l’è un putanun!“. Frase che ci ha ricordato, apriamo la solita parentesi personale, una zia che nella campagna trevigiana degli anni Trenta veniva omaggiata della stessa definizione perché era l’unica donna del paese che leggeva un giornale. Insomma, il dettaglio di una commedia racconta tantissimo, molto più dei pistolotti.

stefano@indiscreto.net 

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