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Bagaglio a mano

La lontananza degli Storm

Paolo Sacchi 05/05/2010

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di Paolo Sacchi
C’è chi ha il campionato più bello del mondo, chi invece mastica amaro. Come stanno facendo proprio in questi giorni in Australia. Non per il calcio, bensì per il rugby. Giornali e tv locali della Terra di Oz hanno definito la settimana scorsa come la più nera della storia sportiva del Rugby League.
Ovvero quello ‘a 13’, non la variante ‘union’ praticata, per intenderci, nel Sei Nazioni. Giusto per i profani (come noi, peraltro) il rugby league è la disciplina più seguita del paese al pari del football locale, sport sorprendente quanto semplice nei meccanismi e in qualche misura apparentato al calcio gaelico. Rugby e ‘Aussie rules football’, vale la pena sottolinearlo, nella loro versione ‘pro’ sono organizzati da due leghe professionistiche strutturate in maniera simile a quelle USA. Dunque macchine perfette o quasi, con attenzione al marketing, al valore del prodotto, alla fidelizzazione, all’accessibilità. Un vero spettacolo assistere alle partite dal vivo, un vero divertimento guardarle in tv.
Piccola premessa: l’unico club della NRL (la lega nazionale rugby) con sede a Melbourne, gli Storm, di proprietà della News Limited, da anni sul campo ribalta le avversarie, in particolare quelle di Sydney, dove il rugby è di gran lunga lo sport più seguito (9 franchigie sulle 16 totali fanno base nell’area della città) al contrario della capitale del Victoria dove è il “footy” a dominare la scena, anche se le ultime straordinarie stagioni degli Storm hanno in effetti ringalluzzito i rugbysti locali. La supremazia però, come ormai pare assodato dopo un’inchiesta (lampo), è stata agevolata da un autoprodotto aiutino, eufemisticamente non molto apprezzato dalla federazione che, per tutelare il proprio buon nome e le regole del gioco, ha usato la mannaia con la formazione di Melbourne prendendo provvedimenti durissimi.
Cos’è dunque accaduto per arrivare al “darkest day”? L’impensabile, l’incredibile. Materia del contendere? Il ‘salary cap’. Siccome gli australiani, gente strana un po’ come gli americani, non avendo ancora avuto l’intuizione di attrarre il pubblico buttando tutto in vacca, con le polemiche sugli arbitri e le congiure, temono che se a poter vincere risultano sempre gli stessi ci si possa annoiare e magari, un bel dì, qualcuno decida di trascorre qualche ora in spiaggia a far surf, o organizzando un BBQ proprio nello stesso orario delle partite. Così, per non smettere di attrarre seguito e rendere più aperta e incerta la competizione, anni fa hanno introdotto il famigerato tetto salariale. In sostanza è risultato che gli Storm, vincitori del titolo nel 2007 e 2009, da qualche anno stiano aggirando il ‘salary cap’. Una volta raggiunto il livello massimo degli stipendi hanno iniziato a retribuire alcuni giocatori attraverso extra al di fuori dall’ingaggio ufficiale.
In Australia, alla scoperta della cosa, è successo il finimondo. Indignazione, sconcerto, NRL che strappa alla squadra i due titoli vinti e ne azzera il punteggio in questa stagione. Grande imbarazzo, anche tra gli sponsor. Dirigenti responsabili che si dimettono, anche se nel frattempo non operano più nel club. Multe. Restituzione dei premi, anche quelli conquistati in passato grazie ai piazzamenti. E una agenzia di scommesse che si è candidata per sponsorizzare la ‘pulizia’ del logo relativo alle vittorie dei titoli revocati tatuati sulle pelle di alcuni giocatori. Manca solo un dato: di quanto avevano sforato? Per 25 giocatori in rosa, in cinque anni, poco più di un milione di euro complessivi. Bazzeccole, forse penserà qualcuno. Invece è inutile dire che la cosa ha fatto inferocire i tifosi. Degli Storm ovviamente, nei confronti dei propri dirigenti. Anche perché nel paese ‘Down Under’ si ragiona ‘upside down’. Altre latitudini. E longitudini.
Paolo Sacchi, da Melbourne
(in esclusiva per Indiscreto) 

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