Il Natale del rugby italiano

23 Marzo 2024 di Daniele D'Aquila

Al Conte Rocco, amico portafortuna 

Marzo 1996, la Francia batte la Spagna a Barcellona. Maggio 1996, l’Italia batte la Polonia ad Udine. Sono le ultime partite dei rispettivi gironi e fissano le relative classifiche, prime a punteggio pieno: Francia-Italia sarà la finale della Coppa FIRA 1995-1996, comunemente denominata Coppa Europa. Stiamo parlando di una storia sportiva tormentata ma egualmente, anzi forse proprio per questo, entusiasmante: la storia del rugby italiano all’interno della storia del rugby mondiale. The show in the show. Il rugby è in un periodo di grandi cambiamenti, anche perché nel 1995 l’International Rugby Football Board ha deciso il passaggio al professionismo del Rugby a 15.

Perché sì, il rugby fino a quel momento viveva formalmente ancora in una dimensione dilettantistica, che era poi il motivo per cui la disponibilità economica di Berlusconi aveva potuto permettersi, a cavallo degli anni ’80-’90, di regalare al pubblico milanese di poche centinaia di tifosi del Giuriati le prestazioni di David Campese, ai tempi considerato il giocatore numero uno al mondo, in una sorta di finto dilettantismo o professionismo mascherato da lauti rimborsi spese che riguardavano tutto il rugby italiano. L’australiano infatti era già venuto in Italia per giocare nel Petrarca Padova, geniale intuizione di Vittorio Munari (che qualcuno ricorderà qualche anno fa commentare il 6 Nazioni su Sky in coppia con Antonio Raimondi) che approfittò dell’inversione di calendari rispetto all’emisfero australe e si giovò della vicinanza con la famiglia d’origine del padre del giocatore.

Dicevamo del dilettantismo, che al di là dei formalismi generava alcune dinamiche asimmetriche sia per le coperture economiche dell’attività che nell’organizzazione dei calendari, basti pensare che la partita tra Romania e Italia della Coppa Latina (torneo quadrangolare svoltosi a Buenos Aires) dell’ottobre del 1995 venne considerata valida anche come partita del girone B della Coppa Europa di cui sopra.

Ed è per queste dinamiche che alla fine Francia e Italia faticarono mesi per trovare l’occasione di disputare questa finale, arrivando a trovare una data 10 mesi dopo, quando era già in corso l’edizione successiva della Coppa FIRA (a quel punto non più valida come Coppa Europa ma solo come qualificazione per il Mondiale, per riorganizzazioni dei calendari su cui sorvoliamo per non far venire mal di testa ai lettori…). Fatto sta che alla fine venne decisa la data di sabato 22 marzo 1997, che trasformò l’edizione della Coppa FIRA 1995-1996 in Coppa FIRA 1995-1997. Le due federazioni si accordano anche per la sede dell’incontro, Grenoble: la città francese con più immigrati italiani, una scelta socio-politica un po’ come il piazzamento dell’Italia del calcio a New York ai Mondiali del 1994 su pressione della comunità italiana (anche se poi gli italiani allo stadio per l’esordio contro l’Irlanda nemmeno ci andarono, perché da storici capiscuola del bagarinaggio preferirono lucrare rivendendo i biglietti agli irlandesi, va beh…).

A questo punto apro la rubrica del “Chi se ne frega?!”, tirando fuori i ricordi personali che riguardano un paese, la Francia, con cui ho sempre avuto un rapporto di amore e odio. Amore perché ho frequentato quelle terre tante volte e per tanto tempo, odio perché la rivalità transalpina è sempre stata atavica. Amore perché ho sempre incontrato persone fantastiche che smentivano molti luoghi comuni sui francesi, odio perché non ho mai condiviso determinate dinamiche socio-politiche per non dire razziali. Amore perché sono sempre rimasto perplesso di fronte alle storielle sui francesi che maltrattano i turisti italiani facendo finta di non capire cosa dicano, ed odio quando poi mi viene fatto notare che parlando francese per me è sempre stato tutto più facile.

Ho conosciuto la Francia ed i francesi da bambino delle scuole elementari, andando in vacanza a Montfaucon, minuscolo paese tra Orange e Avignone dove abitavano i miei zii (la sorella ed il cugino di mio padre, classico matrimonio combinato tra famiglie aristocratiche) che tanti anni prima avevano deciso di trasferirsi in Francia per perseguire le proprie ambizioni. Mio zio era un barone dello Châteauneuf-du-pape, il miglior vino rosso al mondo, mia zia mi preparava la merenda a base di baguette et patè o baguette et chocolat innaffiata da litri di Côte du Rhône, perché in Francia quando si parla di vini non esiste la distinzione tra adulti ed infanti.

In quelle estati torride, su quelle strade polverose a tagliare distese infinite di filari di vite che arrivavano fino all’orizzonte, giocavo coi figli degli indigeni e, con quella magia che solo i fanciulli possiedono, imparavo in pochi giorni un glossario minimo dell’idioma locale. Quanto bastava per scatenarmi in bici sulle direttrici del Tour de France (fu mio zio ad attaccarmi il morbo del ciclismo, quell’uomo che nel tempo libero assemblava biciclette con componenti cannibalizzati qua e là da cadaveri per i giovani del paesello, per lo scorno dei rivenditori locali) o starnazzare abbracciando una palla ovale come mediano (col mio fisichino da snob altezzoso ho sempre preferito guidare la mischia piuttosto che farne parte) assieme a quella compagnia di truppe irregolari che accettarono di buon grado quel piccolo straniero dallo spirito randagio che parlava strano: le classiche vacanze infantili del secolo scorso, in cui si rientrava a casa solo per mangiare e dormire.

Fu per quello che poi, alle scuole medie, mentre i miei coetanei si azzuffavano per trovare posto nelle classi che avevano l’inglese come lingua straniera, prossima a diventare la lingua franca universale del mondo moderno, io da bravo bastian contrario optai per il francese. E grazie a ciò potei partecipare a due vacanze-studio estive con studenti di italiano francesi, scambio culturale parte di un progetto gestito da università italiane e francesi. Parigi, gli africani colonizzati, i Pirenei, il freeclimbing, Perpignan, città in cui manco seguivano il calcio perché gli eroi locali erano i gladiatori della palla ovale, le crepes accompagnate dal sidro rosso, Duravel, i jazz club come nei film, un mare di scoperte che riuscirono a colpire anche un sangue misto come il sottoscritto abituato al melting-pot internazionale. Da lì nacque un rapporto con la Francia che non si è mai interrotto nemmeno negli anni di non frequentazione, e che ovviamente si è rafforzato a più riprese negli anni in cui come regista di sfilate andavo in trasferta a Parigi per la stagione della Moda oppure andavo in vacanza a Saint Tropez, in cui presenziavo a Cannes per la fiera del mercato televisivo oppure si organizzava la zingarata di luglio per il Tour de France.

Chiudiamo l’angolo del “Chi se ne frega?!” e torniamo al rugby, ed alle due federazioni che si accordano per data, luogo e regole di ingaggio della finale, tra cui la più importante: l’incontro sarà valido come test match. Qualche lettore starà già aggrottando la fronte, chiedendosi come fa una finale di una coppa internazionale ad essere un’amichevole. Ed infatti non lo è. Questo è un bias cognitivo di derivazione calcistica, che porta molti a non capire la differenza tra un’amichevole ed un test match. Quest’ultimo, concetto che deriva dal cricket, non è una partita amichevole: è una partita in cui le squadre testano appunto ufficialmente il valore della propria nazionale e conseguentemente il livello del proprio movimento rugbistico.

Da qui discendono ranking, qualificazioni a tornei ed ammissione od esclusione dai tornei ufficiali, motivo per cui le squadre le affrontano con la miglior formazione possibile, motivata al massimo da CT e federazioni, coi quindici in campo che li giocano alla morte: un concetto ben diverso dalle amichevoli calcistiche o dall’All-Star Game NBA. Nei test-match perdere 30-33 non è la stessa cosa che perdere 3-33, motivo per cui anche a risultato acquisito si continua a combattere, non parte la solita girandola di sostituzioni come in altri sport giusto per tirare l’80°. Se qualcuno ricorda il test match tra Italia e Nuova Zelanda allo stadio San Siro di Milano, col pacchetto di mischia azzurro che dalla metà del secondo tempo mise in piedi un’offensiva furibonda per schiantare gli All Blacks, fino a costringere l’arbitro ad assegnare una meta tecnica che proprio non aveva voglia di concedere (di qui le polemiche nei giorni seguenti per la diversa interpretazione di mischia e meta tecnica tra arbitri europei ed arbitri dell’emisfero australe), potrà avere un’idea chiara di cosa intendo.

Il neopresidente di federugby Dondi tempo prima aveva strappato al collega francese, Lapasset, la promessa di avere un test match in caso di finale. Questo perché negli incontri precedenti la Francia aveva sempre inviato la Nazionale A, il che pregiudicava la possibilità di ufficializzare l’incontro come test-match, ma già nell’edizione precedente della coppa l’Italia aveva battuto la Francia A fuoricasa e la Francia aveva già concesso il test match nella Coppa Latina, pertanto la FIR chiedeva alla FFR di affrontare la nazionale maggiore.

E qui arriviamo al punto storico di quella finale di Coppa Europa del 1997: come ci è arrivato il movimento rugbistico italiano a quella finale? Be’, da almeno 3 o 4 anni l’Italia aveva messo nel mirino la Serie A del rugby mondiale, decidendo di voler cambiare la storia ed allungare verso l’aristocrazia rugbistica per anticipare gli scatti di parigrado come Romania o Georgia. Da tempo le nazionali della cosiddetta Home Nations avevano deciso di concedere all’Italia test-match, così come le nazionali dell’Emisfero Sud. Nel 1994, in tour mondiale, l’Italia aveva onorevolmente perso contro l’Australia solo per 20-23, nel 1995 aveva battuto l’Irlanda a Treviso, aveva battuto la Scozia più volte. L’Italia arrivava a quella finale dopo aver vinto un paio di mesi prima contro l’Irlanda (ed era la seconda volta) e aver sfiorato la vittoria a Twickenham. L’Italia meritava di affrontare la miglior Francia, e si trovò di fronte una Francia di tutto rispetto: campione in carica del Torneo 6 Nazioni, concluso una settimana prima col Grande Slam, 4 vittorie su 4 incontri contro Inghilterra, Scozia, Galles ed Irlanda.

Alla notizia della definizione della data mi sovviene un’idea malsana: e se partissi per andarla a vedere? Chiedo a vari amici ma nessuno aderisce: l’università, la fidanzata, il torneo di Dungeons ‘n Dragons, il funerale della madre, le cavallette. Va be’, potrei avere gli zii come appoggio, in fondo saranno 3 o 4 anni che non torno in Francia. Ne parlo subito a mia madre che alza subito il sopracciglio stile Ancelotti: tranquilla mamma, niente questioni di donne, gli amori francesi sono seppelliti dal tempo, Sophie e Chimene sono solo due cicatrici in fondo al cuore, qui si tratta di andare a testimoniare la storia che magari ci scappa la sconfitta onorevole facendo sudare i francesi. Peggio se sente (mia madre): la guerra nei Balcani è finita da poco, l’idea che suo figlio sia di nuovo in giro per l’Europa a far danni non la lascia certo tranquilla, una volta è tornato vivo, la seconda volta magari finisce in manette e ci sono investimenti più produttivi degli avvocati (che alla famiglia del sottoscritto sempre saranno grati in eterno). “Ma no, mamma, dai, è una partita di rugby, mica vado in mezzo agli hooligans inglesi!”. Niente. A quel punto sollecito mio padre e mi gioco la carta parentale, tanto quando si andava dagli zii in macchina passavamo da Grenoble, quindi è lì vicino! Ehm……nì, proprio vicino no. Però dai, si può fare, parto venerdì e vado dagli zii, il sabato vado con zio Jacques (mai capito perché in Francia per prendere la nazionalità devi cambiarti il nome in uno francese, va be’…) a vedere la partita, domenica in famiglia con zii e cugine, lunedì rientro (tanto fino a martedì non ho lezioni in Accademia).

Le formazioni annunciate sono più che golose. Il CT della Francia, Skrela, schiera la miglior formazione del momento: 9 giocatori su 15 erano titolari nell’ultima partita del 6 Nazioni chiuso la settimana prima col Grande Slam, come detto, più altri due titolari che erano entrati a partita in corso la settimana prima. Il CT dell’Italia francese, Georges Coste, che ancora non sa che verrà sempre ricordato come il nostro maestro, schiera i migliori azzurri: c’è Troncon, forse uno dei più grandi Mediani di Mischia italiani di sempre, i fratelli Cutitta che hanno investito la propria cazzimma nel rugby sudafricano da ragazzi expat, Ivan Francescato, sfortunato azzurro col look da rocker che tra poco appoggerà per primo il pennino sulla pergamena della storia, Vaccari, che tanti anni dopo avrei incontrato in qualità di dirigente di federugby per discutere del palinsesto del Velodromo Vigorelli, Properzi, una terrificante via di mezzo tra Lurch della Famiglia Addams ed Andrè The Giant, più tutti gli altri tra cui LVI: Diego Dominguez, il Maradona del rugby, il mio mediano di apertura preferito di sempre.

Sabato 22 marzo 1997, la levataccia più piacevole della mia vita, si parte all’alba (che per il mio metro significa notte fonda) per Grenoble, la quattroruote saltellante (ma perché i francesi fabbricavano sempre ‘ste auto con quegli ammortizzatori da cartone animato?!) è guidata da mia cugina, l’unica persona di nazionalità francese che supera i 30kmh in macchina credo, che ci accompagna approfittando per andare a trovare una vecchia compagna di studi e ci lascia allo stadio Lesdiguières. L’atmosfera è surreale, lo stadio ha 15.000 posti, se non ricordo male, ma a me paiono 150.000 come il Morumbì di San Paolo: quando riguardo i vecchi video mi vien da ridere, perché rivisto oggi sembra uno stadio della serie C calcistica italiana. Ma gli occhi di allora erano diversi: la città di Grenoble ha 80.000 italiani naturalizzati, nella provincia (o si dice distretto? Boh…) sono 200.000, e a me sembrano tutti qui allo stadio con me.

La partita parte bene, dopo 5 minuti la Francia prova la classica azione alla mano da rugby champagne ma sbatte contro un muro: una, due volte, alla terza la mischia italiana schiaccia i francesi a terra e ruba palla, ovale girato ad Ivan Francescato che come i protagonisti del film “Easy Rider” sull’Harley Davidson apre il gas e taglia in due il pollaio dei galletti disegnando la propria personale Route 66 fino alla linea di meta. L’Italia è in vantaggio, i 200.000 sono in visibilio (sì, sono tutti qui con me, la favola la sto scrivendo io e la racconto come mi pare!), i francesi in campo e in tribuna si guardano perplessi senza capire cosa stia succedendo. Lo capirà bene di lì a poco Pierre Villepreux, ex-C.T dell’Italia, allenatore in 2a (e in seguito Direttore Tecnico Nazionale) dei francesi che racconterà di aver capito dopo un quarto d’ora  che la Francia non riusciva a comandare il gioco perché l’Italia le aveva rubato il progetto.

Per il resto inutile fare la cronaca della partita, c’è chi è più competente ed attrezzato per farlo, ed in rete comunque si trovano video di partita, highlights, ed analisi tecnico-tattiche. In soldoni l’Italia tenne in mano la partita, i francesi rientrarono bene a livello di punteggio ma i calci di Dominguez li tennero a distanza: 8 infilate nei pali, 4 trasformazioni dopo altrettante mete e 4 calci piazzati dalla distanza. Risultato finale 32-40, una partita consegnata alla storia. Uscii dallo stadio che camminavo a 10 cm da terra ma osservando gli altri italiani attorno a me mi resi conto della mia superficialità: c’era gente con le lacrime agli occhi.

Fino a quel momento non avevo capito che per quegli italiani di Grenoble quella partita rappresentava qualcosa che io, semplice tifoso, non potevo lontanamente comprendere, ed a quel punto ragionai su come da molti discorsi ascoltati nel pre-partita o durante l’incontro in tribuna si potesse evincere come molti neanche seguissero il rugby. Io non mi considero un esperto di rugby, solo un appassionato, però so di cosa si sta parlando e capisco le analisi fatte da opinionisti e tecnici. Pur senza voler cedere troppo alla retorica sugli expat, la maggior parte di quella gente invece non era allo stadio in qualità di appassionata di rugby ma in qualità di italiani. E quel giorno avevano assistito alla prima vittoria italiana contro i maestri francesi, per di più a casa loro.

Già, a casa dei maestri francesi. Sì, perché banalizzando per semplificare il discorso, personalmente ho sempre detto che i francesi hanno imparato a giocare a calcio dagli italiani, gli italiani hanno imparato a giocare a rugby dai francesi. O meglio, più che di imparare a giocare si è trattato di imparare a vincere: la Francia che finalmente vinse il Mondiale di Calcio nel 1998 ebbe più fortuna delle edizioni precedenti ma soprattutto un’esperienza ed una consapevolezza maturata dalla frequentazione da parte dei suoi uomini chiave della Serie A italiana, massimo campionato nazionale di calcio dell’epoca (e forse di sempre).

Nel caso del rugby italiano contesto e dinamiche sono un po’ diverse, ma i cugini francesi sono sempre stati il modello a cui ispirarsi e a cui aspirare. Motivi? Opinione personale: non tanto per questioni tecnico-tattiche, visto che l’Italia ha sempre avuto caratteristiche di gioco più “asciutte” rispetto al rugby champagne, quanto per una questione di vicinanza geografica e culturale. La forma mentis conta molto, nello sport, nel rapporto tra allenatori ed atleti, ed è indubbio che allenatori francesi hanno sempre avuto maggior agio nel gestire giocatori italiani ed entrare nella loro testa.

Ci si è spesso chiesti ad esempio perché un grande ex-giocatore ed importante allenatore come Kirwan (che pur aveva giocato e vissuto in Italia), uno dei protagonisti della storia degli All Blacks, abbia fatto così fatica come CT dell’Italia mentre abbia ottenuto risultati incredibili come CT del Giappone, paese dall’inferiore tradizione rugbistica. Per me la questione è chiara: i giapponesi sono anglosassoni 2.0, sono neozelandesi agli steroidi. Hanno un etica del lavoro ed un senso del dovere assoluto, motivo per cui sono nate leggende metropolitane e luoghi comuni (che si chiamano così perché sono comuni, appunto): dagli impiegati licenziati che fanno harakiri per la vergogna agli ingegneri che fanno seppuku per un errore di progettazione. Il rispetto dell’autorità è totale, si segue il capo con dedizione assoluta, poi alla fine si traggono eventualmente le conclusioni. Gli anglosassoni credono nell’autorità, i latini hanno bisogno di essere convinti. I giapponesi eseguono gli ordini, gli italiani li discutono. Lo scoprì suo malgrado il sudafricano Nick Mallett da CT dell’Italia, quando notando il gap fisico tra gli azzurri e la crema rugbistica internazionale decise di provare nel ruolo di apertura giocatori più fisici come Andrea Masi (un Trequarti Centro, spesso impiegato anche come Estremo) o addirittura una volta (a Twickenham contro l’Inghilterra) il Flanker Mauro Bergamasco. Ci fu una rivolta in tutto l’ambiente e, al di là della mossa sicuramente forzata, è chiaro che un ambiente così mal disposto in partenza pregiudica qualsiasi esito dell’esperimento.

Poi certo, fanno molto anche le qualità del singolo e Georges Coste da questo punto di vista si è rivelato eccezionale nel capire l’indole del gruppo azzurro e declinarlo nella maniera migliore per farlo rendere, una sorta di Carlo Ancelotti o di Phil Jackson. Ma il tema resta dai tempi di Villepreux (1978-1981) e di Fourcade (predecessore di Coste), e non è un caso che la nazionale azzurra, dopo tanti anni di delusioni, ha fatto il suo miglior torneo 6 Nazioni di sempre quest’anno con un CT argentino (quindi appartenente ad un popolo latino, al 60% di sangue e cultura italiana) come Gonzalo Quesada (che ha peraltro giocato ed allenato per tanti anni in Francia). Il CT dell’Italia ha fatto dichiarazioni sui limiti del movimento rugbistico italiano e sul bacino di giocatori eleggibili simili a quelle di tanti suoi predecessori, ma lui ha ottenuto risposte molto diverse il che significa che nello spogliatoio e sul campo di allenamento abbia saputo toccare le corde giuste nella maniera giusta.

Ma sull’Italia di oggi ci torno dopo. Quale fu il risultato di quella finale vinta che da allora l’ambiente del rugby festeggia ogni anno? Be’, fu sicuramente uno spartiacque, un cippo miliare, la più importante sliding door del rugby italiano, una sorta di Avanti Cristo e Dopo Cristo, perché a quel punto la storia del rugby italiano cambiò. Con quella storica vittoria sui maestri francesi i risultati che man mano portarono a quella finale ebbero diverso significato e, inquadrati nella giusta ottica assieme a quelli che di lì a poco seguirono, successivamente spinsero inglesi e soprattutto francesi a considerare l’ingresso dell’Italia nel torneo allora chiamato 5 Nazioni. Le federazioni “celtiche” però si opposero, soprattutto Galles e Scozia, sostenendo da una parte l’ancora inadeguato livello raggiunto dall’Italia e dall’altra, un po’ perfidamente, che le argomentazioni avanzate dai francesi erano emotivamente dettate dal risultato di Grenoble e volte a giustificarlo. In realtà l’Italia aveva già battuto anche (e per più volte) Irlanda e Scozia, motivo per cui decisivo alla fine fu il contro-ricatto morale lanciato a sostegno dell’Italia da inglesi e soprattutto (ancora una volta) francesi: “Se vi opponete così strenuamente all’ingresso dell’Italia nel torneo, significa che ne avete paura…”

Detto fatto, Italia nel torneo che diventò così 6 Nazioni ed altrettanto roboante vittoria dell’Italia all’esordio nel 2000 al Flaminio di Roma contro la Scozia campione in carica, anche qui con l’avversario umiliato dal meraviglioso piede di Diego Dominguez, tanto che una testata francese rispose perfidamente alle argomentazioni anti-italiane degli scozzesi di qualche tempo prima con un titolo irriverente: L’ITALIA PRENDE A CALCI LA SCOZIA. Mi rendo conto di come possa suonare un po’ da collezionista di “Milan-Cavese”, ma anche quella volta fui presente, grazie ad un’amico di famiglia scozzese che, dopo anni di delusioni in un paese calcistico (chi ricorda il 2-0 della nazionale di calcio con doppietta di un Donadoni infortunato ed in forse fino alla vigilia, e sostituito poi dopo il secondo gol?) assaporava il momento della rivincita e decise di portare tutta la famiglia (più il sottoscritto, in qualità di mascotte o, più probabilmente, nelle sue intenzioni, di vittima sacrificale del barsport scozzese) a Roma per vedere finalmente una compagine scozzese umiliare gli italiani. L’umiliazione fu scozzese, e quella volta nemmeno io riuscii ad infierire, concedendo alla mia perfidia una giornata di ferie.

Ma poi come proseguì la storia? E soprattutto, cosa resta oggi di quell’impresa? Be’, è passata tanta acqua sotto i ponti, così tanta che non è possibile condensarla in chiusura di scritto. L’Italia ha ottenuto altre vittorie nel torneo, alcune storiche come la prima contro il Galles, o quelle contro la Francia tra cui una mitica a Roma dopo che un giornale francese aveva battezzato la trasferta titolando “VACANZE ROMANE”. Di contro tante sconfitte, anni ed anni di delusioni, tanti tornei portando a casa il cucchiaio di legno destinato a chi termina il 6 Nazioni all’ultimo posto a zero punti. Tanti grandi giocatori hanno vestito la maglia azzurra, tanti giocatori invidiatici dal resto del mondo: non solo oriundi come Castrogiovanni (miglior Pilone al mondo nella sua era) o “mezzi-oriundi” come Parisse (per anni miglior Numero 8 al mondo), ma anche gente come Andrea Masi, esemplare prodotto del rugby aquilano (oggi ancora devastato dallo storico terremoto) che venne candidato un anno al titolo di miglior giocatore del 6 Nazioni, eccetera. Però l’Italia ha sempre avuto grandi picchi in alcuni ruoli (in special modo gli avanti ed il pacchetto di mischia) e meno in altri (vedi il valzer delle Aperture), il che ha sempre abbassato il livello medio generale anche perché (e questa è sempre stata la vera zavorra del movimento rugbistico italiano) il bacino d’utenza è sempre stato piuttosto limitato.

I risultati deludenti della nazionale (ancora peggiori, se possibile, ai Mondiali dove non si è mai passato il girone eliminatorio) hanno provocato frustrazione nel pubblico italiano, portando a chiedere a più riprese l’uscita dell’Italia dal torneo 6 Nazioni per surreali questioni di dignità ed orgoglio. Meno male che ciò non è avvenuto, non solo perché tornare indietro sarebbe stato un suicidio, perdendo il confronto continuo col meglio del rugby europeo e per gli stessi motivi rendendo peraltro inutile l’investimento sulle due franchigie iscritte allo United Rugby Championship. Ma anche e soprattutto perché ci saremmo persi il grande risultato di quest’anno, il miglior 6 Nazioni di sempre non solo a livello numerico (1 pareggio e 2 vittorie) ma soprattutto a livello di gioco; a parte l’Irlanda vincitrice, numero 2 del ranking, la squadra più forte d’Europa e forse del mondo, da cui è stata surclassata, la nazionale azzurra ha messo sotto tutte le altre avversarie come raramente si era visto in passato: l’Inghilterra per almeno mezza partita, la Francia per tre quarti di incontro, Scozia e Galles per gli interi match.

Abbiamo avuto nazionali azzurre mediamente più forti, forse, abbiamo avuto campioni più dotati, forse, ma non siamo mai stati così vicini al livello dei migliori e non siamo mai stati così ottimisti per il prossimo futuro. Perché? Perché oggi finalmente c’è una nazionale composta da giocatori di livello internazionale, con un livello medio simile, molto omogenea a livello anagrafico, ancora relativamente giovane. In passato infatti l’Italia pagava la discontinuità del prodotto umano, con alcuni giocatori non eccelsi ed altri che arrivavano finalmente ad essere tra i migliori al mondo in età avanzata, e quindi subito dopo il ricambio generazionale annullava tutto costringendo a ricominciare da capo.

Oggi l’Italia paga ancora un po’ di inesperienza (vedi gestione dell’incontro con gli inglesi e debacle contro l’Irlanda), di leggerezza (troppi calci sbagliati nei momenti decisivi), di indecisione (con la Francia ha avuto un po’ il braccino capendo tardi di poter tentare il colpaccio storico), ma è lecito sperare che con la crescita generale dei vari Capuozzo, Garbisi, Menoncello & Co., prima che i Brex ed i Lamaro intraprendano la parabola discendente, anche quelle lacune vengano finalmente colmate. E per quanto riguarda il bacino d’utenza, ricordiamo che la Nazionale Under 20 ha chiuso il proprio 6 Nazioni al quarto posto dopo il terzo dell’anno scorso, il che significa che i cadetti italiani da tempo mettono 2 o 3 squadre sotto di sé in classifica di torneo.

Insomma, questo 6 Nazioni 2024 è stata la Pasqua del rugby italiano, come quel Francia-Italia del 1997 ne è stato il Natale. Tutto è partito da lì, dall’idea di un gruppo di italiani di cambiare la propria storia e quella del rugby, ed oltre che a Diego Dominguez (l’ho già detto che è la mia apertura preferita di sempre?!) il mio pensiero va ai due arcangeli che oggi non ci sono più. Ivan Francescato, che quel giorno a Grenoble aprì le danze con la prima meta e che se ne sarebbe andato a neanche 32 anni per un arresto cardiaco dovuto a malformazioni genetiche ad un cuore che là in campo ci sembrava enorme ed indistruttibile. Massimo Cutitta, a cui le federazioni italiana e scozzese hanno intitolato la Cutitta Cup a partire dal 6 Nazioni 2022, dopo che ci ha lasciato nel 2021 per complicazioni respiratorie dovute al Covid 19, e che mi ricorda uno degli aneddoti più divertenti della mia storia di tifoso.

Una storia curiosa che spiega eloquentemente la differenza tra certi Dei dello sport e noi umani: anni ‘90, Giurati di Milano, intervallo della partita dell’Amatori Mediolanum Milan Rugby, siamo in fila al bar dello stadio (oh Dio…“stadio”, Avvocato…) quando ad un certo punto entra Cutitta. Noi ragazzi ce ne accorgiamo perché di colpo l’ambiente si fa buio, quell’uomo gigantesco copre la luce e fa ombra coi suoi 110 chili mentre entra e passando davanti a decine di occhi sgranati e bocche aperte va verso il bancone dei gelati per ordinare un Mottarello. Lo riceve, lo scarta, lo infila tutto in bocca e poi col gesto più naturale del mondo tira fuori il legnetto pulito come noi comuni mortali faremmo con lo stuzzicadenti dell’oliva del Martini all’aperitivo. Salute!

Ed oggi, che ricorre l’anniversario di Grenoble e che l’Italia ha da poco concluso il suo miglior 6 Nazioni di sempre suscitando la felicità dei grandi ex, testimoniata da sorrisi sinceri ben diversi da quelli a denti stretti dei reduci di Spagna 82 dopo il Mondiale di calcio vinto nel 2006 o quelli dei grandi tennisti italiani del passato dopo lo Slam vinto da Sinner, viene voglia di abbracciarli tutti quegli omoni che per tanti anni ci hanno divertito e fatto sognare, spingendo la mischia fino a buttare giù il muro e portarci nella grande festa del rugby europeo.

Grenoble, 22 marzo 1997: il Natale del Rugby italiano.

danieledaquila74@gmail.com

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