Joshua-Klitschko e la boxe viva

30 Aprile 2017 di Stefano Olivari

Joshua-Klitschko per sempre. O almeno per due volte, visto che mai nella storia recente della boxe avevamo riguardato in replica un match appena seguito in diretta (su Fox Sports). Un match che ci ha riportato alle grandi sfide fra pesi massimi, con vibrazioni che non sentivamo dai tempi di Tyson-Holyfield, e che sarà ricordato per sempre da chi vuole organizzare qualcosa in Europa.

Negli ultimi anni non si era mai visto fra i massimi un match così, con due campioni che di fronte ai 90.000 di Wembley hanno dato vita a 11 round memorabili, di cui almeno 4 (in particolare il quinto, ma non solo), degni di entrare fin da subito nella storia della boxe e con ribaltamenti agonistici e psicologici quasi da film. Adesso Joshua, vincitore per k.o. tecnico e quindi alla diciannovesima W prima del limite su 19 incontri in carriera, è campione IBF (già deteneva questa cintura), WBA e IBO, con prospettive molto concrete di riunificazione totale visto il livello del campione WBC Deontay Wilder (visto a bordoring a Londra) e di quello WBO Joseph Parker. Questo non significa che non sia un pugile organizzativamente protetto (lo era, all’ennesima potenza, anche Clay-Alì) né che sia un fenomeno indiscutibile, visto che Cammarelle lo aveva forse battuto nella finale olimpica dei supermassimi a Londra 2012 e che il suo cammino IBF è stato contro dei signor nessuno.

Ma non è certo elencando sigle con sempre meno valore, diciamo pure nessuno, che si può spiegare l’emozione di un vero match per il titolo mondiale dei pesi massimi, che ha ingigantito sia la figura del vincitore (mai Joshua era andato oltre il settimo round, mai era stato così vicino alla sconfitta) sia quella del battuto, visto che il più giovane dei Klitschko a 41 anni ha mostrato forse la miglior boxe di una carriera costruita con l’intelligenza e la tecnica di chi si è formato con allenatori e strutture dell’ex Unione Sovietica (quando l’URSS si è dissolta l’ucraino Klitschko aveva 15 anni), ma non certo infiammando le folle pur avendo dalla sua parte il mondo organizzativo tedesco, il migliore d’Europa ex aequo con quello inglese. Klitschko aveva già perso 4 volte in carriera e si sarebbe volentieri evitato la quinta, ma mai come in questo caso si può dire che nei massimi a volte la sconfitta quasi certifica il valore. Accadde anche con Primo Carnera e il suo record costruito in gran parte artificialmente, che nelle sconfitte con Max Baer e Joe Louis dimostrò un cuore clamoroso. A livello più alto e in tempi più recenti è stata anche la storia di Cooney contro Holmes.

Di Joshua e Klitschko non è stata esaltante soltanto la battaglia sul ring, a un ritmo possibile soltanto fra due pugili integri, ma anche il prima e il dopo: dichiarazioni improntate al massimo rispetto, nessuna pagliacciata tamarra, la consapevolezza che la forza dell’avversario in ogni caso aumenta la propria. Contano ovviamente anche le origini: Joshua ha avuto un’infanzia non ricca, ma certo migliore di quella del 90% dei pugili, e si è messo nei guai (per droga e risse) quando era già adulto, mentre Klitschko viene da una famiglia di ottimo livello sociale e culturale.

Adesso Joshua ha come orizzonte l’America ma anche, in una logica di monetizzazione, un’altra sfida da Wembley con Tyson Fury e magari una rivincita concessa a Klitschko (che non sembra intenzionato a ritirarsi). Difficilmente il fratello del sindaco di Kiev riuscirà a raggiungere Joe Louis come vittorie in match con il Mondiale in palio (gliene mancano 2 per arrivare a 25), ma era già nella storia anche senza passare da Joshua. Di sicuro per qualche anno non sentiremo più dire che la boxe è morta.

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