Self-publishing come Dostoevskij

14 Ottobre 2016 di Stefano Olivari

Autoprodurre i propri libri o i propri articoli non è una vergogna. Lo hanno fatto anche Moravia e Dostoevskij, quindi noi miserabili possiamo fare altrettanto con la certezza, come minimo, che il successo o il più probabile fallimento saranno totalmente nostri. Ci siamo sempre trovati meglio a scrivere per un editore, va detto, non soltanto per questioni di soldi ma anche perché l’editore ti consente di concentrarti su ciò che in teoria dovresti saper fare meglio e rappresenta un filtro importante con l’esterno. L’autoproduzione rimane però la strada più onesta e produttiva sia per chi è all’inizio sia per chi scrive per professione ma è convinto di avere un’idea così bella da non essere compresa (traduzione: da essere rifiutata) da chi fa l’editore sul serio.

Ci è venuto in mente tutto questo leggendo del concorso organizzato da Kobo usando la sua piattaforma per il self-publishing, Kobo Writing Life, in collaborazione con Mondadori (il Kobo è in Italia commercializzato da Mondadori) e PassioneScrittore.it. Il  sogno di tutti è diventare la nuova Anna Todd, più concretamente l’iniziativa si chiama ‘6 romanzi in cerca d’autore’ e si articola in due sezioni, il torneo di self-publishing (possono partecipare tutti gli iscritti a Writing Life) e il concorso di scrittura (solo inediti). Per i particolari rimandiamo a Writing Life (www.kobowritinglife.it), tagliamo corto perché Kobo non ci paga per scrivere tutto questo, mentre interessante è che ci siano giurie popolari ma anche per così dire di qualità, con agenti letterari ed esperti. I  sei vincitori avranno in premio la pubblicazione cartacea e eBook di Kobo e vendita nelle librerie Mondadori.

Ma cosa volevamo dire? Intanto che pubblicare è l’ultimo dei problemi, in un paese dove soltanto il 42% (Fonte Istat, dati 2015) delle persone con più di 6 anni legge (legge, nemmeno compra) in un anno almeno un libro per motivi non professionali o scolastici. La nostra percezione empirica dei giovani che leggono, di cui abbiamo qualche tempo fa, si è per una volta dimostrata esatta: la fascia di età in cui si legge di più è quella 15-17 anni, con tendenza alla diminuzione quando si cresce. Il figlio adolescente che legge e il padre in canottiera che guarda Juventus-Udinese? Uno stereotipo fondato: poi bisogna vedere cosa si legge, spesso è meglio guardare Dybala e Zapata. Nel Sud si legge molto meno che nel resto d’Italia, siamo al 28,8%, per motivi mai realmente chiariti (alcuni insegnanti ci hanno detto il bel tempo e purtroppo, purtroppo per la scuola italiana, non scherzavano) visto che un libro costa pochissimo in proporzione al tempo di utilizzo.

Conclusione? Scrivere è bellissimo, anche se non quanto leggere (parere personale). E bisogna provarci fino a quando si ritiene di avere qualcosa da dire, rispettando però l’indifferenza dei potenziali lettori che quasi sempre rimangono potenziali. C’è infatti una notevole differenza fra ‘riuscire a farsi pubblicare’ (oltre alla modalità pay c’è anche quella di case editrici che non possono rifiutare certe raccomandazioni) ed essere pagati per scrivere. Nel nostro piccolissimo abbiamo sempre prodotto (pochi) libri che ritenevamo potessero portare un guadagno ad autore ed editore, al di là di come poi le cose siano effettivamente andate  tirando le somme. Non crediamo quindi che il self-publishing generi mostri, in fondo scrivere pagine inutili è sempre meglio che drogarsi, ma soltanto che rappresenti un’opportunità in più per chi è fuori dal giro.

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