Cinema

Profondo Rosso

Paolo Morati 17/03/2025

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Ho guardato Profondo Rosso da solo a casa, al buio… a un certo punto è squillato il telefono… mi è quasi venuto un infarto….”. Così il nostro amico Enrico ci raccontava diversi anni fa l’esperienza coraggiosa con il leggendario lungometraggio di Dario Argento, che lo scorso 7 marzo ha compiuto i 50 anni dall’uscita nelle sale italiane. Lungometraggio (si usa ancora questo termine?) che in origine avrebbe dovuto (pare)  intitolarsi La tigre dai denti a sciabola, per proseguire l’abitudine dei titoli ‘zoologici’ dei precedenti successi argentiani. Poi ancora in lavorazione arrivò l’intuizione, il colpo di genio, per dare il nome giusto a qualcosa di entrato nella storia.

Ora, noi eravamo troppi piccoli per ricordarci l’impatto che Profondo Rosso ebbe in origine sul pubblico. Ne venimmo a conoscenza anni dopo, al tempo delle medie grazie (incubi compresi, Tenebre lo sognammo per una settimana buona… ) a un compagno di scuola appassionato del genere. Un film con una sceneggiatura che se da un lato veniva (e viene) criticata per alcune incongruenze, dall’altro è funzionale all’immaginazione del suo autore e regista: l’incubo che diventa credibile. Immaginazione fatta di efferati omicidi (recitati dalle mani guantate dello stesso Argento), quadri inquietanti, location di culto (come quella iniziale con la citazione di Nighthawks di Edward Hopper), movimenti di macchina lunghi con scatti improvvisi e una colonna sonora entrata nella storia e che contribuì ulteriormente a creare il mito.

Suonata e composta dai giovanissimi Goblin, guidati da Claudio Simonetti, riuscì a diversi mesi dall’uscita a raggiungere le vette della classifiche, quelle di un’epoca in cui i dischi si vendevano ancora e i temi (ma non i tempi) erano più rassicuranti. Una musica completa di  arrangiamenti trionfali, nati in fretta e furia un po’ per caso dopo l’uscita dal progetto di Giorgio Gaslini, che entrano subito dentro la testa per non togliersi più. Altra chiave di un mito che conferma come senza i suoni che le preparano e dipingono anche le immagini più spaventose possono fare un po’ meno paura.

Dal canto nostro – e tornando al nostro amico Enrico citato in apertura – provammo anche noi tanto tempo dopo a vivere la sua stessa esperienza (con batticuore a mille)… senza completarla. Terrorizzati non tanto dagli omicidi efferati e dai quadri spaventosi nella casa della medium, bensì dagli improvvisi rumori e dalla voce minacciosa dietro la porta del protagonista… Poi, discutendone con un pubblico più giovane, ci è capitato di sentire che Profondo Rosso non fa paura, ma ridere… Sarà, beati loro.

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