Perché Sanremo é Sanremo

19 Marzo 2010 di Simone Basso

di Simone Basso
Sabato in Liguria, anche per chi non si interessa di pedivelle comincia ufficialmente la primavera. L’annuncio, fatto dei rumori sottili che producono le biciclette e da quelli più minacciosi dei mezzi motorizzati al seguito, si ripete ormai da più di un secolo. La Milano-Sanremo nacque quasi per scommessa nel 1907, dopo il fallimento di una competizione automobilistica, e potremmo definirla fin dalle prime pedalate ammalata di meraviglioso fregolismo.
Malgrado lo sviluppo certo ed intoccabile, la Classicissima è sempre stato un rebus difficile da interpretare: ha vissuto di tali trasformazioni nella sua storia da divenire, a dispetto del chilometraggio fachiresco, un enigma beckettiano. “Chi osservi una fotografia delle strade sulle quali un tempo si correva la Milano-Sanremo non può che rimanere sgomento: carreggiate, mucchi di ghiaia quasi in mezzo l’arteria ad ostacolare maggiormente il già difficile procedere, pietre aguzze sparse ovunque e polvere, polvere come solo se ne potrebbe trovare oggi in una cava di calce…”. Bastano quattro righe vergate da Rino Negri (nel 1954!) per fotografare la situazione: la Sanremo muta, imprevedibile, come la stagione che annuncia con il suo passaggio; non è la Roubaix, che parte da Compiegne per rinnovare il rito sadico e primitivo del pavè e che si è trasformata in un ciclocross folle a sud del Velodromo.
Nel 1960 introdussero, per sparigliare il poker dei Rik Van fiamminghi con Poblet, il Poggio; rassegnati all’idea che il Turchino, con l’asfalto, fosse ormai un Passo panoramico o poco più. Fu dell’82 la novità della Cipressa, altro dente promosso per setacciare il gruppone che sfreccia (pericolosamente veloce) sull’Aurelia: eppure lo svolgimento della corsa dei fiori fu sempre metafisico.
Potremmo avanzare una sentenza certa, l’unica snocciolabile sul suo fascino perverso: il vento e la pioggia, soprattutto quest’ultima, modificano lo standard agonistico. L’acqua, da tempo immemorabile, priva i velocisti della certezza di un arrivo a ranghi (quasi) compatti. Perchè rende ostica la protezione degli stessi nella placenta del gruppo ed espone tutti al rischio nei tratti più insidiosi; in primis la discesa della Cipressa con quella serie arabesca di curve che, nel 1984, concluse la carriera di un drago come Jan Raas.
Questa edizione con lo zero ci ricorda di annate storiche, straordinarie: nel 1950, il quasi trentaseienne Gino Bartali battè clamorosamente allo sprint un plotone con Magni e Van Steenbergen; vent’anni dopo si interruppe il digiuno italiano (diciassette anni di vittorie forestiere..) grazie ad un numero eccezionale di Michele Dancelli, spirito libero che suggellò quel dì una carriera matta. Il 1990 fu la volta di Gianni Bugno: Eolo selezionò la truppa prima del Turchino e rimasero fuori dai giochi Kelly e Fignon; il monzese andò via con Canzonieri dopo Imperia e si isolò sulla Cipressa; gli inseguitori, malgrado il vantaggio esiguo, non riuscirono a riprenderlo. La media pazzesca, quasi 46 orari, testimoniò la battaglia agonistica e la tramontana che spinse i corridori in Riviera.
La grandezza ingestibile della Sanremo sta anche nell’albo d’oro, a dispetto della noia regale di alcuni approcci al Capo Berta o del tatticismo esasperato: sontuoso, sacro, nello scorrere i nomi di quei semidei prestati alla bicicletta. I due specialisti (sic) massimi furono Costante Girardengo ed Eddy Merckx, entrambi idealmente a sette scalpi: l’omino di Novi infatti fu squalificato dopo aver dominato nel 1915; a Porto Maurizio imboccò il budello del centro storico invece che la strada della corsa, tagliando qualche centinaio di metri di percorso. La giuria alla sera, dopo il reclamo presentato dal secondo arrivato (Ezio Corlaita), gli tolse la vittoria. Solo un animale speciale come l’orco fiammingo riuscì a sorpassarlo: se i corridori da Sanremo, quelli veri, sono purosangue scalpitanti, Eddy fu Ribot all’ennesima potenza. Il luccichìo negli occhi dell’assassino belga, l’omicida delle speranze di vittoria altrui, brillò in via Roma come Venere nella volta di una notte limpida.

La vinse in tutte le maniere possibili ed immaginabili: tra la volata al cardiopalma, bimbo ventunenne, del 1966 e la fuga a due, dittatore al tramonto, del 1976 c’è un’immensità che descrivere non sapremmo. Nel menu sciorinato dal Cannibale altri due sprint di gruppetto: nel 1967 promosse l’azione nella discesa del Capo Berta e nel 1975 rinvenì sui fuggitivi: punì sceriffi tricolori in entrambi i casi; Motta, Bitossi e Gimondi nella prima occasione, Cecco Moser nella seconda. Sfruttò il Poggio come nessun altro nella mitologia sanremese, scattando in salita (1971-72) o volando in discesa (1969): fu semplicemente Merckx, il non plus ultra atletico del Novecento, il Chamberlain europeo.
L’attualità ci impone di ricordare l’ultima novità del percorso, quelle Mànie che potrebbero pesare nello sviluppo complessivo della maratona: trattasi comunque di corsa per fondisti autentici, quindi per campioni di sangue blu; i 298 chilometri, benedetti in un’era che pretenderebbe un ciclismo più leggero (per signorine), non mentono mai. Noi vediamo, o ci auguriamo, una Sanremo nordica; nel senso che potrebbe anticipare molti temi delle prossime classiche franco-belghe: i flahutes, un pò Bonnot e parecchio Attila, incombono con le loro ambizioni di supremazia assoluta. Quindi, rincorreremo con lo sguardo Boonen, Pozzato, Gilbert, Boasson Hagen e la banda che vuole fortissimamente tramortire di fatica gli sprinter ambiziosi: il giochino tattico risiede tutto in questo braccio di ferro.
Tutto il resto è etnologia imperdibile del nostro paese: Milano, Pavia, l’approccio con l’appennino ligure, il tuffo verso il mare e i fiori; ai lati della strada la folla dei curiosi, degli infastiditi e degli appassionati. Sulla striscia d’asfalto, ad accompagnare un gruppo di uomini che rincorrono un sogno, i fantasmi di Petit-Breton, Gerbi, Garrigou e dei corridori che quella gara l’hanno corsa; applaudita da generazioni di italiani che magari hanno solo intuito la metafora potente che incarna, della vita che ricomincia dopo l’inverno infinito. Uno di quei campioni, sul palco delle premiazioni, vivrà la vertigine di sentirsi il re del mondo o Eddy Merckx: onore che va oltre il beffardo quarto d’ora warholiano, lo considereremo (andando con Bowie) un eroe. Solo per un giorno.
Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto) 

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