Lezioni di difesa, intervista a Matteo Villa

L'ex capitano del Cagliari, cresciuto nelle giovanili del Milan ed ora collaboratore tecnico dell'Inter, racconta la sua lunga carriera ed i tanti incontri memorabili. Da Albertini a Batistuta, da Allegri a Giorgi...

19 Maggio 2021 di Gianluca Casiraghi

Un difensore di quelli di una volta, in senso tecnico, era di sicuro Matteo Villa, dieci anni con la maglia rossoblù del Cagliari tra Serie A e B con il bellissimo ricordo della semifinale di Coppa Uefa nella stagione 1993-1994, capitano degli isolani e votato dai tifosi rossoblù nella formazione del Cagliari del Secolo. Con lui abbiamo rivisitato la sua vita pallonara, che peraltro ancora continua insegnando ai giovani difensori dell’Inter proprio a difendere uno contro uno come si faceva un tempo.

Matteo, quando è stata la prima volta che hai morso le caviglie ad un avversario?

«A 11 anni ho giocato per la prima volta un campionato negli Esordienti della Dipo Vimercatese, l’anno successivo sempre negli Esordienti ma con la maglia del Burago, la società dell’oratorio del mio paese d’origine, Burago di Molgora. Al passaggio nei Giovanissimi sono andato al Milan e ci sono stato 6 anni fino alla Primavera».

Hai fatto provini per passare nelle file del Milan?

«No, alcuni osservatori mi avevano segnalato e mi hanno poi portato in rossonero, dove sono cresciuto come calciatore ma soprattutto come ragazzo e sono diventato uomo. Era tutto ben organizzato, nel settore giovanile del Milan, e li ringrazio per quello che hanno fatto per me».

In questi sei anni passati nei ragazzi del Milan ricordi con piacere qualche allenatore?

«Certamente più di uno: Francesco Zagatti, Giorgio Avanzi e Andrea Valdinoci, con quest’ultimo ho trascorso i miei due anni nella Primavera».

In quella squadra hai avuto compagni che hanno fatto carriera tra i professionisti?

«Io sono del 1970 e le annate dal 1968 al 1971, quelle che costituivano la Primavera nelle due stagioni in cui vi ho militato, sono state piuttosto floride per il Milan. Ti cito Francesco Antonioli, Massimiliano Cappellini, Christian Lantignotti, Gianluca Pessotto, Sergio Porrini e Demetrio Albertini che era il più giovane essendo classe ’71».

Tu sei stato un difensore e quelli erano gli anni del grande Milan di Arrigo Sacchi, con la sua difesa stellare: probabilmente per un giovane come te sarebbe stato impossibile entrare in quel quartetto arretrato. Però ci hai mai fatto un pensierino?

«Onestamente no, già essere arrivato nei ragazzi del Milan sarebbe stato un grande traguardo anche non considerando tutte le stagioni da professionista che sarebbero arrivate dopo. Ho avuto anche l’occasione di esordire in Coppa Italia contro la Lazio, partita che si giocava al Brianteo di Monza e non a San Siro in cui c’erano i lavori per il terzo anello in vista di Italia ’90».

Dove parte la tua carriera da professionista? 

«Il Milan mi mandò in prestito per tre campionati di fila. L’esordio in C1 con il Trento, poi alla Reggiana in Serie B e in A con il Cagliari. Al primo campionato di A a Cagliari totalizzo 22 presenze, ho un ottimo rendimento e bisogna considerare anche che stavo facendo il servizio militare nella compagnia atleti a Napoli, ero in caserma sino al giovedì e poi mi univo alla squadra. La società chiese al Milan di acquistarmi a titolo definitivo, anch’io ero d’accordo e dalla stagione 1992-1993 ero a pieno titolo un calciatore del Cagliari».

Nel 1992 il Cagliari è acquistato da Massimo Cellino, uno che ha fatto la storia in Sardegna. Come lo definiresti?

«Intanto c’è un episodio particolare che mi lega a lui. Io sono stato il primo calciatore acquistato da Cellino, sul mio contratto per la prima volta c’era la sua firma da presidente e proprietario. È stato un presidente in anticipo sui tempi di anni, perché pretendeva che la società avesse i conti economici in ordine e già negli anni Novanta parlava di stadio di proprietà della società, cosa che non è riuscito a realizzare per vari ostacoli».

Al Cagliari hai avuto come allenatori autentici mostri sacri del calcio italiano. In ordine sparso: Trapattoni, Mazzone, Giorgi, Ventura e Ulivieri. Un giudizio su ognuno di loro?

«Trapattoni è una persona veramente alla mano, era arrivato al Cagliari dopo una carriera di successi tra Juventus e Inter ed aveva ancora tanto entusiasmo e tanti consigli soprattutto per i giovani. Si fermava sempre a fine allenamento per una sessione supplementare con i giocatori più giovani, per insegnargli a calciare, per esempio. Mazzone è un’altra gran bella persona e non è stato soltanto un mister che ti sapeva dare tanta carica, di calcio tatticamente ne sapeva. Giorgi è stato come un padre per me e per altri di quel Cagliari che arrivò fino alla semifinale della Coppa Uefa, purtroppo ci ha lasciato qualche anno fa. Di Ventura preferisco dire niente, non ho proprio avuto un buon rapporto con lui. Finiamo con Ulivìeri: non lo ho avuto per tanto tempo, però quello che mi ha insegnato l’ho trasmesso e lo trasmetto ancora ai ragazzi che ho allenato e alleno. Ho avuto anche la fortuna di seguire le sue lezioni a Coverciano quando ho presso il patentino di allenatore, era passi avanti agli altri come mister a fine anni Novanta».

E un tuo compagno nel Cagliari è stato un certo Massimiliano Allegri…

«Persona splendida, diventato un allenatore top, non trovo altre parole per descriverlo».

Parlando di mister Giorgi non si può non tornare al ricordo della semifinale di Coppa Uefa raggiunta nel 1994 e persa con l’Inter, che poi trionfò nella doppia finale con il Casinò Salisburgo.

«Per forza, mai il Cagliari aveva raggiunto un traguardo simile in Europa e finora non è stato eguagliato. Poi c’è stata la chicca di avere eliminato nei quarti la Juventus di Roberto Baggio, detentrice del trofeo. Il ritorno era allo stadio Delle Alpi di Torino e ho ancora ho stampate nella mente le facce felici e incredule dei tanti emigrati sardi a Torino che erano sugli spalti».

Siete stati fermati in semifinale dall’Inter: c’era la possibilità di qualificarsi alla finale e magari di vincerla quella Uefa?

«Secondo me sì. Avevamo vinto 3-2 la partita di andata a Cagliari, nel ritorno a Milano sbagliammo completamente l’approccio al match e  perdemmo 3-0. In finale si erano qualificati gli austriaci del Casinò Salisburgo, un avversario alla nostra portata. Quindi avremmo anche potuto vincerla, quella Coppa Uefa».

Dieci anni in rossoblù, capitano per alcune stagioni, la semifinale di Uefa, traguardi che ti hanno fatto guadagnare l’inserimento nella migliore formazione della storia del Cagliari.

«Essere nella Top 11 del storia del Cagliari mi rende orgoglioso, soprattutto perché è stata stilata con i voti dei tifosi; vuole dire che al Cagliari, a Cagliari e ai cagliaritani ho lasciato un ottimo ricordo».

In questa formazione dei migliori c’è ovviamente un altro lombardo come te, Gigi Riva. Raccontacelo.

«Ho avuto la fortuna di conoscerlo. Non l’ho incontrato tantissime volte, credo in una decina di occasioni, ma l’impressione è sempre stata di uomo per bene e sempre prodigo di consigli per noi suoi eredi nel Cagliari. Quello che hanno fatto lui e quella squadra eccezionale che ha vinto uno scudetto resta scolpito nella storia della Sardegna calcistica. Poi il fatto della sua rinuncia al passaggio miliardario alla Juventus per restare a Cagliari è una storia che parla da sé».

Tornando a te, hai mai avuto la richiesta di trasferirti in un club più blasonato?

«Nella stagione in cui siamo retrocessi in Serie B in estate c’è stato un interessamento della Juve, ma si è fermato tutto lì. Non ho rimpianti, ho avuto una carriera che va ben al di là di quello che mi sarei aspettato quando ero un giovane calciatore della Primavera del Milan».

Con chi sei andato più d’accordo nei tuoi quindici anni di calcio professionistico?

«Sono tutti miei ex compagni del Cagliari. Il capitano Gianfranco Matteoli, il mio «socio» in difesa Gianluca Festa e Roberto Muzzi. Con loro il rapporto continua come se giocassimo ancora insieme».

L’avversario che ti ha fatto più soffrire?

«Senza alcun dubbio Batistuta, quando lo marcavo facevo sempre ottime prestazioni però difficilmente terminava la partita senza aver segnato almeno un gol. Lo soffrivo dal punto di vista fisico, era una furia».

Hai segnato soltanto quattro gol in carriera, però hai scelto bene a chi farli…

«In effetti, pochi gol ma di prima scelta. Ho segnato due reti al Milan, una alla Juventus e una all’Udinese. Va detto anche che i miei quattro gol non hanno portato un solo punto in classifica alle mie squadre….».

Lasci Cagliari nel 2001 e scegli una chiusura con il pallone non banale.

«Sono sceso in B per indossare due maglie storiche, quella azzurra del Napoli e quella rossoblù del Genoa. Altre esperienze fantastiche, Cagliari resta in cima al podio, però anche a Napoli e a Genova ho vissuto due annate piene di soddisfazioni. La vera chiusura la faccio nel campionato 2004-2005 e lascio da vincente con il trionfo in C2 con la Pro Sesto e la conseguente promozione in C1».

Invece la tua carriera da allenatore ti sta dando altre soddisfazioni?

«Sono contento anche di ciò che sto facendo come allenatore. Devo ringraziare Ezio Motta, dirigente della Buraghese la società del mio paese, che mi ha convinto a iniziare ad allenare, partendo dal basso nel 2009 con gli Allievi provinciali, e già lì ho imparato molto. Ho fatto un gradino in più e sono passato ad allenare la Juniores nazionale del Mapello Bonate e nella stagione 2015-2016 ho avuto anche l’occasione di guidare la formazione di Serie D. Questa l’ultima esperienza non è durata a lungo ma non rinnego nulla».

Adesso ricopri un ruolo un po’ all’americana: sei collaboratore tecnico nell’Inter per le formazioni Under 15, 16, 17 e ti occupi soltanto della fase difensiva.

«Parlando con i dirigenti del settore giovanile dell’Inter, altra società dove sto lavorando benissimo e sto imparando molto come tecnico, abbiamo partorito questo progetto di allenamento specifico per la fase difensiva. Si dice che da alcuni anni i difensori pecchino nella marcatura e nei duelli individuali con gli attaccanti e io insegno ai ragazzi proprio il mestiere di difensore, diciamo come si faceva una volta. È un ruolo che mi entusiasma perché sono a contatto diretto con un gruppo di ragazzi e ne curo la crescita tecnico-tattica».

Non ti viene voglia di riprendere una squadra come primo allenatore?

«In questo momento sono soddisfatto del mio ruolo all’Inter, per il futuro si vedrà. Non chiudo le porte ad alcuna esperienza che possa farmi migliorare». 

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