La lunga marcia di Romiti

19 Agosto 2020 di Stefano Olivari

Cesare Romiti è morto, all’età di 97 anni, e non c’è bisogno di Indiscreto per spiegare cosa abbia rappresentato nell’economia italiana una figura come la sua, soprattutto negli anni Settanta quando al di là della crisi della FIAT, a corto di soldi e di modelli vincenti, le Brigate Rosse e altri gruppi analoghi godevano all’interno delle fabbriche di un certo consenso. Con Berlinguer, quindi anche la sinistra istituzionale, non contrario all’occupazione degli stabilimenti. Quasi una rivoluzione. Quasi.

Poi la marcia dei quarantamila, certo non totalmente genuina (la mano fu quella del direttore del personale Carlo Callieri), e tutto il resto salvarono questa azienda e tante altre, oltre ad un’economia italiana comunque messa meglio di oggi a livello strutturale, con un debito pubblico sotto controllo. Nel 1980 era Il 56,1% del PIL, nel 2019 era il 134,8, a fine 2020 non è azzardato ipotizzare un 160%….

Ma non è di questo che vogliamo parlare nel nostro bar dell’economia, bensì di ciò che Romiti e il romitismo hanno rappresentato per l’Italia di oggi. Cominciamo con il dire che la FIAT fu salvata dal pugno di ferro di Romiti, dopo l’allontanamento di Umberto Agnelli ispirato da Cuccia (del quale sia Romiti sia Gianni Agnelli erano per motivi diversi fedelissimi), con i soldi delle banche, dello Stato, di Gheddafi ma soprattutto dai modelli di successo tirati fuori dall’amministratore delegato di FIAT Auto, Vittorio Ghidella: su tutti la Uno, lanciata nel 1983 e modestamente comprata anche da noi, che rilanciò la FIAT proprio nel segmento delle auto popolari. Senza dimenticare Tipo, Croma, Autobianchi Y10, Lancia Thema, Alfa Romeo 164…

Una volta salvata l’azienda e con tutto l’entusiasmo travolgente degli anni Ottanta, Romiti (che era un uomo di finanza, come del resto Marchionne), decise che la FIAT non sarebbe più dovuta dipendere dall’auto e dai suoi cicli, diventando una holding vera e propria. La narrazione oggi prevalente, ben diversa rispetto a qualche anno fa quando Romiti era a capo di RCS, è quella di Romiti manager cattivo e Ghidella ingegnere bravo, ma si può dire che avessero ragione entrambi. Ghidella nel pensare che il rilancio della FIAT passasse da auto di successo e non da altri magheggi, Romiti nell’osservare che l’auto, in particolare nei segmenti meglio presidiati dalla FIAT, quelli popolari, non avesse grande futuro visti i margini sempre più stretti e la concorrenza asiatica.

Un grande dirigente d’azienda, stranamente pessimo poi come imprenditore fra Gemina e altro, solo sfiorato da Tangentopoli (la FIAT fu fra gli esentati dalla mano dura della legge), uomo chiave del capitalismo italiano visto il rapporto strettissimo con Cuccia che di fatto lo considerò una specie di commissario di Agnelli. Tantissimi i suoi nemici, dal fratello dell’Avvocato a De Benedetti a Montezemolo (che lui fece cacciare dal gruppo, anche se poi Agnelli lo ripescò), tantissimi anche gli episodi di una vita che rende impossibile situa santificazione sia denigrazione.

Ma tornando alla marcia dei quarantamila, in realtà meno della metà, bisogna dire che pur nella sua artificiosità è stata uno degli episodi chiave dell’Italia del dopoguerra, dividendo per sempre gli impiegati (la quasi totalità dei manifestanti) dagli operai prima che qualche decennio dopo queste categorie si fondessero in un proletariato inconsapevole di esserlo. Romiti come Bartali, ha salvato l’Italia da una rivoluzione comunista? La prima di queste due leggende è la più vicina alla realtà.

Share this article