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Calcio

Il mito della scuola Premier League

Roberto Gotta 09/04/2021

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Ole Gunnar Solskjaer non ha l’eco di Pep Guardiola. Perché ha meno vittorie, meno esperienza e non mette le felpe che piacciono alla gente che (si) piace. Ma in novembre aveva detto parole molto simili a quelle recenti del collega del Manchester City, lamentando gli impegni troppo ravvicinati della sua squadra. Lo aveva fatto dopo una vittoria, per essere certo di non passare per piagnone: 3-1 a Goodison Park contro l’Everton, circa 48 ore dopo che l’aereo dei Red Devils era atterrato a Manchester di ritorno da una (pessima) trasferta turca, un 1-2 contro il Başakşehir contrassegnato dal famigerato gol di Demba Ba, che sull’azione successiva ad un calcio d’angolo in favore dello United si era fatto metà campo da solo, inseguito negli ultimi metri solo da Nemanja Matić, il meglio piazzato ma anche il meno indicato per certe rincorse. Nel 3-1 sull’Everton, Solskjaer aveva perso Luke Shaw per una contrattura alla coscia ed aveva sbottato sulla frequenza di impegni e sull’inopportunità di anticipi delle 12.30 del sabato, specialmente per chi era appena rientrato in patria.

Poco tempo dopo Jürgen Klopp se l’era addirittura presa con il bordocampista di BT Sport, titolare dei diritti per le partite di quella fascia, in un teatrino consapevole nel quale l’allenatore del Liverpool si sfogava, sapendo benissimo che il suo interlocutore non aveva alcuna colpa, anzi dicendolo pure, e l’inviato ribatteva che erano stati i proprietari dei club ad accettare quell’orario e dunque Klopp avrebbe dovuto protestare con i propri dirigenti.

Le proteste di Guardiola per l’eccesso di partite, per il potenziale pericolo a cui sono sottoposti i giocatori, in un’annata in cui molti di loro avranno anche da giocare la fase finale degli Europei o la Copa America – con Coppa d’Africa per altri a gennaio 2022… – non sono dunque inedite, ma sono arrivate alla vigilia dei quarti di finale di Champions League ed Europa League e dunque proprio dell’ennesimo impegno infrasettimanale per il City e molte altre. È vero, si sta giocando troppo ma più che altro si sta giocando senza intervallo e senza riposo. Quando venne scelto per allenare il West Bromwich Albion al posto di Slaven Bilic, il 16 dicembre, Sam Allardyce gestì tante partite (quattro) quanti allenamenti nei quindici giorni successivi, per la frequenza di impegni e spostamenti: e al di là della povertà tecnica della sua rosa è anche evidente come sia difficile allenare in condizioni del genere.

In settimana, comunque, le inglesi hanno avuto risultati europei apparentemente slegati da sovrapposizioni di gare e fatiche, considerando anche i recenti tris con le varie nazionali. La migliore di tutte è stata il Chelsea, che ha vinto con sicurezza contro il Porto, nel vuoto pneumatico di Siviglia, ennesima farsa resa necessaria dal panico per il Covid. Sconfitta molto male proprio dal West Brom sabato scorso, per via anche dell’espulsione rapida di Thiago Silva, la squadra di Thomas Tuchel ha stretto le maglie proprio dove in campionato, per la prima volta, si erano allargate, mostrando di aver appreso la lezione di un video che l’allenatore aveva mostrato alla squadra tre giorni prima, con la ripetuta e ossessiva sottolineatura degli errori commessi. Soprattutto perché erano sostanzialmente i primi sotto la sua gestione: prima che l’anomalia diventasse regola Tuchel ha voluto stritolare le incertezze ed è stato premiato, perlomeno a breve termine.

Con il solito 3-4-2-1 ha chiuso bene il campo, pur correndo qualche pericolo: il possesso palla al 61% dimostra come la scelta di impiegare Jorginho e Kovacic in mezzo al campo, con Kanté – sempre ottimo ma non più quello del titolo al Leicester e della versione Conte – a subentrare per mantenere la freschezza nelle uscite palla al piede, sia stata azzeccata. Il Porto in alcuni momenti ha cercato di accentuare la fisicità di alcuni suoi giocatori ma in quei frangenti il Chelsea si è coperto bene. E i gol, peraltro, sono arrivati da momenti di brillantezza individuale abbinati però a errori avversari: il grande gesto tecnico di Mason Mount per l’1-0 al 32°, con passaggio smorzato e fatto proseguire, spalle alla porta, con l’interno sinistro per la battuta incrociata di destro, è stato favorito dalla lettura tardiva di Mbemba, che uscendo in scivolata senza riuscire ad intervenire ha concesso tempo e spazio per il tiro, con Pepe – incolpevolmente, visto che non era la sua zona – arrivato troppo tardi per chiudere; mentre il 2-0, di Chilwell all’85°, è nato sì dalla sua decisione, con Kovacic palla al piede e appena autore di un gesto di disappunto per la mancanza di alternative, di accelerare improvvisamente proprio per dettare il passaggio, ma senza il mancato controllo del Tecatito Corona, che non ha né stoppato né rinviato ma… smorzato la palla per la ricezione e l’avanzata solitaria di Chilwell, la parte decisiva dell’azione non si sarebbe verificata. Al ritorno – sempre a Siviglia… – il Chelsea deve gestire la situazione, ed è in grado di farlo.

Curiosamente, da errori difensivi sono nati due dei tre gol che un’inglese ha invece subito, nel 3-1 del Real Madrid sul Liverpool giocato in un’ambientazione ancora più deprimente del Pizjuan vuoto – che almeno è maestoso – ovvero lo stadietto di Valdebebas, il centro tecnico del Real solitamente utilizzato dal Castilla, la seconda squadra. L’1-0 di Vinicius Junior, su splendido controllo di petto e battuta rapida, è stato facilitato dalla lettura errata, da parte del difensore centrale Nate Phillips, che si è fatto scavalcare dal preciso lancio di Kroos pur partendo da una posizione favorevole. E il 2-0 di Marco Asensio è arrivato su assist di testa di… Alexander-Arnold, colpevole di una posizione non perfetta. Volendo, poco reattivi almeno due giocatori del Liverpool sul terzo gol, sempre di Vinicius, creato da un’incursione di Modric che ha paralizzato sul posto alcuni di loro, ma è comunque pressoché impossibile ottenere la perfezione, e piuttosto bisogna riconoscere che tatticamente il Real Madrid ha avuto la meglio: la scelta del lancio lungo per mettere alla prova e magari portare all’errore i due centrali del Liverpool non è stata casuale ed è sorta dall’analisi delle partite recenti della squadra di Klopp, che pur con le tante assenze ha provato a mantenere un’impostazione con pressing alto (la presenza di Diogo Jota in questo è fondamentale) ma da mesi non ha, dietro, la rapidità nelle chiusure e il senso della posizione di un Van Dijk.

Il Manchester City ha giocato alla Manchester City, nel 2-1 sul Borussia Dortmund, ma quel gol del pareggio subito da Marco Reus – brillantissimo scambio con Haaland, troppo rapido e stretto per permettere un intervento difensivo, dato che oltretutto Stones aveva correttamente seguito il norvegese per ostacolargli la ricezione schiena alla porta – può davvero pesare. City con il 4-3-3 ma le solite continue variazioni difficili da seguire, con De Bruyne a oscillare tra il terzo di destra e il trequartista alla 4-2-3-1, e senza punta di ruolo. Sorprendente, nei giorni scorsi, la… sorpresa per l’annunciata partenza di Agüero, ma l’argentino negli ultimi mesi aveva giocato poco e aveva faticato a riprendersi da un infortunio, per cui la sua uscita, per chi le cose le segue da vicino, non è stata poi davvero una notizia. Bernardo Silva centravanti, con movimenti costanti a portare via difensori e favorire le corse dei vari Foden, Mahrez, Gundogan. Il gol di De Bruyne è arrivato da pochi metri, dopo un doppio crosso che fa tanto City guardiolano per la rapidità di apertura e la prossimità alla linea di fondo, e anche il 2-1 di Foden ha avuto origine da circostanze simili, con la curiosità di un cross di De Bruyne sul secondo palo sul quale il difensore del BVB Thomas Meunier si è trovato da solo tra Gundogan e Foden, ha mancato l’intervento e non ha potuto fare nulla per impedire l’altruistico scambio corto tra i due del City, con Foden che non è al primo gol di quel genere. Poi, ovviamente, se Giovanni Reyna avesse tenuto d’occhio quest’ultimo, invece di guardare la palla, l’esito sarebbe stato diverso.

In Europa League lo spreco dell’Arsenal contro lo Slavia Praga, non il primo della stagione, e la sicura vittoria del Manchester United a Granada, che aumenta di un pizzico le probabilità che entrambe le squadre di Manchester arrivino ad una finale europea.

Quindi? Quindi nulla. Fa sempre sorridere, se si va oltre ai titoli e alle frasi ad effetto, la facilità con cui l’esito di partite di singoli club, diversissimi tra loro per filosofia, prospettiva, modalità di costruzione, viene inglobato nel complessivo bilancio di una lega intera: dal turno di coppe non è uscita né vincente, né perdente né… pari, la Premier League, ma l’hanno fatto solo i rispettivi club. Un organico come quello del City, che negli undici titolari aveva tre inglesi ed è allenato da un catalano con idee parecchio lontane da quelle classiche britanniche, rifletterà il volto moderno della lega ma non certo la sua identità tecnica e tattica, non certo una ‘scuola’, come forse può ancora fare la nazionale. E solo perché lì allenatore e praticamente tutti i giocatori che contano sono cresciuti in patria.

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