Il decennio di Master of Puppets

22 Ottobre 2009 di Simone Basso

di Simone Basso

1. Con quella copertina semplice ed efficace come monito, non ci furono mai fraintendimenti: il vinile targato Music For Nations, in Italia come nel resto d’Europa, arrivava di importazione e venne collocato nei negozi come un monolite inquietante.”Master of puppets” firmò un’epoca, confermando tutte le speranze riposte in quella band californiana di lungocriniti. Se “Kill’em all” fu l’apologia di certo Metal adolescenziale, selvaggio quanto immaturo, il seguito (“Ride the lightning”) spalancò un territorio vergine a tutti gli adepti della nuova fede. Un rock duro così estremo da sposarsi magnificamente con concezioni musicali differenti: l’hardcore punk più aggressivo, certo tipo di psichedelia, la new wave meno delicata. Un suono poderoso e immaginifico, dall’incedere quasi militaresco, scevro dalle pose circensi di quel tempo. I Metallica,per dirla tutta, riportarono il rock alla sua dimensione più autentica: la strada, l’unico luogo di verità del mondo. Furono indispensabili perchè cacciarono i pagliacci dal tempio e rintrodussero la realtà, scomoda perchè sporca. Ma soprattutto, dopo un lustro abbondante di saghe epiche e guerre stellari, conclusero l’isolamento beota di un genere, magnificamente canzonato dal geniale “This is Spinal Tap” di qualche anno prima.
2. Il terzo album della serie fu registrato in Danimarca, patria del batterista Lars Ulrich, e visse fino all’ultimo di ritocchi e perfezionamenti strutturali: in quei ‘tallica la crescita artistica fu un’esigenza autentica, fisiologica. Rispetto al disco precedente si allargarono le trame strumentali e il suono divenne più cupo e stratificato, incrementando il profumo progressivo di alcune composizioni. Una scelta coraggiosa e in controtendenza, così come l’utilizzo di un semplice tecnico del suono,l’eccellente Flemming Rasmussen, invece di un produttore vero e proprio: particolare che oggi fa un effetto incredibile, alle prese con una contemporaneità pop schiava degli stereotipi sonori imposti dall’industria musicale. L’album uscì nel 1986 e fu un suggello perfetto degli anni Ottanta: l’ultimo decennio che permise la vita e lo sviluppo di una scena orgogliosamente indifferente al mainstream cafone di Mtv. I Four Horsemen osarono, andando al di là delle citazioni di Hemingway e Lovecraft della fatica prima, con una prepotente dichiarazione d’intenti. Negli anni del trionfo reaganiano, ma anche dell’Aids e di Chernobyl, produssero un’opera quasi di concetto; uno sguardo disilluso sulle fobie e i mali del mondo.
3. L’introduzione di “Battery” pare Segovia e precede un’esplosione thrash di rara efficacia; la sezione ritmica sembra alimentata da una centrale nucleare impazzita e gli intrecci chitarristici denotano una maturità compositiva sorprendente. La title-track è una strepitosa danza ipnotica: le liriche sono una metafora crudele sulla droga e la tossicodipendenza. Lo stacco centrale, introdotto da un arpeggio memorabile, offre uno dei fraseggi più belli della storia del rock. La musica sembra aggiungere ulteriore significato a quelle parole beffarde; le corde delle chitarre torturate dai riff, come i fili dell’esistenza mossi dal grande burattinaio.”The thing that should not be” ridesta l’immaginario lovecraftiano e affonda in una palude di suono oscuro e distorto; mostruosamente efficace. Il primo lato (…) si conclude con la maestosa “Welcome home(Sanitarium)”, prima un macabro lento, caratterizzato da armonizzazioni splendide, e poi un uragano di rabbia, con un assolo pirotecnico di Kirk Hammett a lacerare il pezzo. Un gioiello di bellezza quasi algida, interpretato da un James Hetfield sempre più conscio delle sue doti canore, e un testo tremendo, sulla volontà suicida di un malato mentale imprigionato in un manicomio. Così come “Disposable heroes”, cavalcata sulla guerra e il dolore e il caos che produce: l’immagine di un padre che apre la sacca da cadavere per riconoscere il figlio è spaventosamente efficace. Il brano musicalmente è un carrarmato, un’arma letale di distruzione; nove minuti di aggressione guidata dal drumming magistrale di Ulrich.”Leper messiah” è una marcia beffarda, dedicata ai telepredicatori religiosi che infestano gli Stati Uniti, sorretta da un riff gigantesco. Poi c’è la struggente “Orion”, un brano strumentale, caleidoscopio di magie che consacrarono il genio di Cliff Burton.
4. Alcune sezioni brillano di una luce ultraterrena,una sorta di aurora boreale in musica: l’assolo di basso trasporta l’ascoltatore in un’altra dimensione. Un’orchestrazione incentrata sul dialogo incessante, lisergico, tra le tre chitarre (sì, anche quella a quattro corde…): rosari di note incastonate alla perfezione, impagabili per complessità strutturale ed efficacia melodica. Un capolavoro di metallo urlante a braccetto con il blues elettrico, Bach e l’acid rock. L’epilogo del disco,”Damage inc.”, riporta all’ultraviolenza più brutale: l’impatto frontale, senza compromessi,è il degno finale.
5. Ai tempi l’impressione minacciosa, ammirando loro e i vari epigoni anche in concerto, fu quella di essere nel bel mezzo di una rivoluzione sonica, nell’epicentro sismico della Next Big Thing: e non ci sbagliammo.”Master of puppets” ebbe un impatto clamoroso,vendette più di un milione di copie in pochi mesi, malgrado l’astio delle radio e il boicottaggio dei Metallica stessi verso Mtv. Ultimo fenomeno popolare che divenne culto senza l’apporto dei videoclip; già allora decisivi per le fortune discografiche dei gruppi. La morte tragica di Cliff Burton se non modificò le future fortune commerciali di Hetfield e compagni cambiò le prospettive artistiche del combo di San Francisco. Che realizzò un mezzo capolavoro con “..And justice for all”, seguito esageratamente sinfonico di “Master”, e poi percorse le strade multimilionarie del celeberrimo Black Album. Opera irresistibilmente heavy-pop, dotata di un songwriting eccelso e di una perfezione produttiva (l’ultima prima dell’arrivo di protool..) assolutamente da battimani.
6. Poi lentamente sarebbe arrivato il declino, coinciso con i problemi esistenziali dell’anima del gruppo: Von Hetfield per interderci. Il combo di oggi, malgrado qualche stravaganza retaggio dei vecchi tempi, è la parodia della gioiosa macchina infernale che fu. Celebrati senza remore da quella Mtv che, agli esordi, aveva rappresentato la nemica acerrima. Il peccato mortale odierno, declinati a cover band di se stessi, è quello di confonderli con altri dinosauri del rock pesante; manco fossero mestieranti alla Ac Dc o Iron Maiden. I quattro Cavalieri dell’Apocalisse furono ben altro: rappresentarono la voce più autentica di una (de)generazione intera. L’ascolto del monumentale “Master of puppets”, che tutt’oggi ispira moltitudini di musicisti di ogni genere, basterebbe per fugare qualsiasi dubbio. E se non ci credete…”Fuck it all and fucking no regrets”. Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)
Share this article