Jasikevicius e la scoperta di Rocky

23 Giugno 2015 di Simone Basso

Fa piacere leggere l’autobiografia di un Grande dell’eurobasket, ancor più se stampata da una casa editrice italiana (la torinese Add). “Vincere non basta“, parole e musica di Sarunas Jasikevicius, con l’aiuto di Pietro Scibetta, è un viaggio impetuoso nella carriera di uno dei giocatori più geniali ammirati nel Vecchio Continente. Repetita iuvant, come Jasi, soprattutto nel magistero del gioco a due, dalle nostre parti, il solo Mike D’Antoni: creatività, timing, visione. Il lituano, figlio di una tradizione cestistica con pochi eguali, è stato primattore attraversando almeno tre lustri del gioco, a dispetto di doti fisiche normali per uno alto 193 centimetri. La differenza l’ha sempre fatta leggendo e anticipando il flusso della partita, piegando al proprio volere l’inerzia della stessa: il Quoziente Intellettivo, mente fredda e cuore caldissimo, innanzitutto. Non roviniamo il piacere della lettura, ma precorriamo alcuni temi del libro. Curioso che Saras abbia scoperto l’Occidente, lui, bimbo dell’Unione Sovietica che fu, guardando il blockbuster “Rocky IV”, nemmeno fosse uno dei ragazzini di “Kynodontas”. Dalla povertà dignitosa dell’adolescenza ai contratti milionari in Eurolega (e nell’Nba) le distanze sono siderali. Il minimo comune denominatore è la passione per il gioco del nostro, cittadino del mondo con la valigia in mano. Gli anni americani a Quarryville, con gli Harrold, i tutor che divennero la sua seconda famiglia, il periodo a Maryland quando evolveva da off guard. Il primo titolo europeo, con la nazionale under 18, ottenuto allo Yad Eliyahu: un segno del destino. Sarunas, uno dei tanti, divenne Jasikevicius all’Olimpija Lubiana di Zmago Sagadin, guru e scienziato pazzo, compagno di Becirovic, Milic, Golemac, Zdvoc. Da lì in poi la parabola è straconosciuta. Due note: lo capimmo in diretta, ma Jasi conferma che l’impresa italiana nella semifinale olimpica (Atene 2004) ebbe la collaborazione involontaria del cittì lituano, a dir poco nel pallone. Sireika, durante un timeout, si mise a disegnare uno schema sulla lavagna: c’erano – in campo – Sarunas, Siskauskas, Songaila e Stombergas; l’allenatore scrisse quattro esse senza far capire ai suoi a chi corrispondessero… Le sfide Panathinaikos-Olimpiacos, storie tesissime già a vederle da fuori, in quanto a inciviltà del (simpatico) pubblico pagante, farebbero impallidire anche il peggio calcistico.

Alla fine dell’avventura, che si conclude con Jasi profeta in patria con lo Zalgiris, rimane una considerazione amara. Jasikevicius potremmo includerlo nella generazione dell’area Fiba che crebbe con il modello, l’ispirazione, del Dream Team 1992. L’America, quantitativamente irraggiungibile, fu rincorsa per tutti i Novanta. All’inizio degli anni Zero parve evidente il canovaccio – sempre più qualitativo rispetto ai pattern monodici d’oltre Oceano – delle migliori formazioni continentali di club (appunto, il Maccabi di Parker, Jasi e Vujcic) o dell’Argentina màquina da palla con estro. Un’età dell’oro, certificata dall’invasione di Sternville dei Nowitzki e Pau Gasol, che oggi sembra essersi esaurita. Da una parte gli americani, imparata la lezione, hanno introiettato un bel po’ di quel basket nel loro sistema, applicandolo a un materiale umano straordinario, dall’altra si è smesso di lavorare sulle peculiarità tecniche delle varie scuole. Succede così che l’eredità dei Bodiroga, Jasikievicius, Papaloukas, non è stata raccolta e rinnovata: nell’elite, il Pana vive ancora degli spunti di Diamantidis, nel Pireo la palla che scotta va ancora, a dispetto di una selezione di tiro sempre meno logica, a Spanoulis. Andrés Nocioni, che va verso i trentasei anni, veterano di mille battaglie tra l’Europa e gli States, ha deciso l’ultima Eurolega. Kaukenas, trentottenne, è l’uomo chiave nella crepuscolare Serie A italiana. Si aspettano i Teodosic – impeccabili esteticamente quanto inconsistenti – che, puntualmente, ogni volta, deludono le aspettative. Forse tutto ciò è cominciato quando si è voluto ridurre a stereotipo, a figurina, il pianeta stelle strisce. Perchè l’Nba, in sè, è un’entità finanziaria che ingloba realtà differenti fra loro, addirittura opposte: ne coesistono trenta… Le Golden State e San Antonio all’avanguardia, e di successo, vivono in un’altra dimensione rispetto ai bassifondi (tankanti) di Philadelphia e Minnesota. Non capirlo significa rifiutare un confronto che ci migliora: esattamente quel che accadde – a parti invertite – più di trent’anni fa quando, nelle manifestazioni giovanili, gli americani ignorarono i segnali della nuova frontiera. L’Arvydas Sabonis diciottenne, che dominava quei tornei, era l’annuncio che l’Europa stava colmando il divario. Il futuro prossimo va ripensato coltivando i nuovi Jasikevicius, sviluppando nuove idee. Con l’asterisco che un “iniziatore” di pick and roll del livello del lituano non si fabbrica con le X e le O.

Il disagio di fronte a spettacoli che un tempo amavamo è quasi sempre inspiegabile. Leggendo un pezzo da un blog della Gazza, dell’ottimo Paolo Gozzi, uno che il motociclismo continua a seguirlo ed amarlo, abbiamo trovato il carbonio-14 del nostro disamoramento. “Quando è caduto Marquez il boato di gioia è stata una ferita per tutti coloro che seguono le corse da tanti anni e sanno che cadendo si può morire. Ma quelli vicino a me che ne sapevano? Il motorismo moderno ha rimosso il concetto di rischio. Le gare in tv sembrano videogiochi, i commentatori inventano soprannomi da cartone animato, tutti hanno la battuta pronta. Il motociclismo è uno show, il divertimento è business, il dolore è da nascondere..”

Venerdì scorso – nella sua (…) Roma – è andato oltre Giulio Glorioso. Non ci interessa l’esercizio, retorico, del coccodrillo ma vorremmo sottolineare la sostenibile leggerezza dell’essere di quelli come lui. Il friulano è stato Mister Baseball e ha vissuto la vita – felice perchè naif – del campione e del pioniere. Al di là di Santi Bailor, degli stereotipi, Glorioso era sempre presente: c’era alla vernice della nazionale italiana, a Roma contro la Spagna nel 1952, quando ricevette il primo lancio (simbolico) da Gregory Peck. Con Nettuno (1965) alzò la prima Coppa Campioni vinta da una squadra tricolore. Faceva pure il presidente nel 1968, colla Lazio, nei dì tumultuosi dell’invasione dei carri armati sovietici a Praga: il rientro a casa, merito suo, fu più prezioso di un no hit durante le World Series. In effetti Capoccione, che parti dal giavellotto e cominciò da esterno, è stato il miglior pitcher della storia. Sette scudetti, due – a Milano – senza perdere una partita; detiene ancora il primato di eliminazioni al piatto, 2884, in undici campionati. Invitato a un camp degli Indians, appena ventiduenne, le sue storie scavalcano l’agonismo: attore di Carosello, amante di Brigitte Bardot… Gli esploratori come lui, i Rolly Marchi, i Terruzzi, i Rubini, hanno sempre dato l’idea di essersi divertiti un mondo. Magari erano squattrinati, ma hanno vissuto lo sport cavalcandone la parabola ascendente, nell’illusione bellissima che potesse rimanere solamente un gioco.

Simone Basso, in esclusiva per Indiscreto

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