Giornalismo
Compagni di viaggio di Franco Rossi
Stefano Olivari 30/10/2023
Dieci anni fa ci lasciava Franco Rossi e chi lo conosceva sa benissimo quanto ancora avrebbe potuto dare a tutti noi. Lo abbiamo già scritto e lo confermiamo: anche nel 2023 sono tantissime le situazioni in cui ci chiediamo “Che cosa avrebbe detto Franco?“, basti pensare alla vicenda scommesse, perché al netto della retorica grande uomo-grande maestro lui aveva la qualità principale dei grandi giornalisti, quella di essere interessante. Da mesi con altri amici ci chiediamo cosa fare per commemorare nel modo giusto Franco: una serata di aneddoti divertenti sembrerebbe forse irrispettosa, una di lutto non sarebbe davvero da Franco Rossi, una a metà strada senza senso. Alla fine lui vivrà finché vivranno quelli che lo hanno conosciuto e forse anche oltre, se un po’ del suo spirito positivo e centrato sul presente rimarrà in circolo. Intanto proponiamo un capitolo del fallimentare e amatissimo libro A cena con Franco Rossi, scritto insieme ad Enzo Palladini, riguardante la fortuna di essere stati suoi compagni di viaggio. Metaforici ma anche reali, fedeli al suo primo comandamento: il calcio sarebbe la cosa più bella del mondo, se solo non ci fossero le partite. Uguale per la vita: bello discuterne, un po’ meno viverla. Franco Rossi lo ha fatto al massimo, pur avendogli la vita servito cattive carte.
Una volta certe persone venivano definite ‘anime in pena’. Un modo poetico di definire soggetti incapaci di stare fermi al proprio posto, sempre bisognosi di trovare una meta, oppure qualcosa da fare che non fosse sedersi a riposare. Franco Rossi era un’anima in pena. Atipica, ma lo era. Fosse stato per lui sarebbe vissuto viaggiando, possibilmente non da solo ma con qualcuno che lo accompagnasse e lo stesse ad ascoltare. Una telefonata tipica del venerdì pomeriggio era più o meno questa: “Buonasera, è Franco Rossi. Domenica per caso vai a Bergamo? Posso venire con te? Va bene, dimmi dove mi devo far trovare”. Qualsiasi viaggio con lui diventava una divertente avventura, a patto che fosse di durata breve o media e poi vedremo anche perché. Diceva di non conoscere le strade, ma si accorgeva di ogni minima deviazione e lo faceva notare se la riteneva inutile. Aveva uno spirito di osservazione superiore non solo alla media ma anche all’élite.
Franco non guidava, più o meno tutti lo sanno. Ma un giorno confessò di avere avuto la patente, in gioventù. Aveva – secondo questa versione – una vecchia Fiat 500 comprata usatissima, utilizzata per scorrazzare con difficoltà per le vie di Torino. Un giorno, disperato alla ricerca di un parcheggio, abbandonò il veicolo in mezzo alla strada è scaraventò la patente nel Po: da quel giorno non si sarebbe più seduto al volante. Ma in età più avanzata questa versione era stata messa da parte. Molto più comodo affermare di non averlo mai avuto, quel documento rosa. Così, commentando la Formula 1, poteva dire “Jean Alesi ha vinto solamente un Gran Premio più di me, che non ho la patente”. Quale delle due versioni sia quella vera oggi è difficile capirlo, a meno che la Motorizzazione non abbia ancora qualche traccia di una patente ottenuta all’inizio degli anni Sessanta.
L’equipaggio di una qualsiasi trasferta, che fosse Bergamo oppure Cremona oppure Verona, poteva essere composto da due, tre, quattro persone. Più o meno alla fine si otteneva lo stesso risultato. Parlava solo Franco e gli altri stavano ad ascoltare. Raccontava qualsiasi cosa, a volte ripeteva storie già sentite. Ma siccome spesso i colleghi-amici che componevano la spedizione erano di diverse testate alcuni di loro finivano per guadagnarci, perché Franco non era un maestro nella separazione delle sue vite: quella pubblica e quella privata spesso si mescolavano. Quindi durante un viaggio in auto di un paio d’ore almeno tre-quattro notizie esclusive scappavano fuori: uno dei motivi per cui fare da autista a Franco risultava alla fine un esercizio utilissimo. L’importante era non starci troppo, in auto. Durante un viaggio verso Lucca per un Lucchese-Inter di Coppa Italia, ai tempi di Osvaldo Bagnoli, si addormentò a Melegnano, si risvegliò sulla Cisa con 50 metri di visibilità, si guardò intorno e disse: “C’è un po’ di nebbia”. Si riaddormentò immediatamente per risvegliarsi nel parcheggio dello stadio Porta Elisa. Partita iniziata e poi sospesa prima della fine del primo tempo. Viaggio di ritorno: esattamente uguale.
Nell’ottobre del 1994 l’Inter giocava la domenica a Foggia e improvvisamente venne proclamato uno sciopero degli aerei. Soluzione drastica del problema: farsi autorizzare la trasferta in auto. Autorizzazione concessa e un minuto dopo ecco la telefonata di Franco: “Se vai a Foggia in auto vengo con te”. Certo, ci mancherebbe. All’andata viaggio quasi regolare. Al ritorno, dopo uno 0-0 dimenticabile, la frase storica: “Ti tengo compagnia, visto che andiamo nella notte”. Al casello autostradale di Foggia stava già dormendo (12 minuti di viaggio), salvo poi svegliarsi a Pesaro con l’esclamazione: “Ho fame”. Fermata all’autogrill, ripartenza e nuova grande dormita fino a Milano, passando ancora una volta attraverso un tratto di nebbione lungo l’A14.
Ma lo spettacolo di Franco era ancora più indimenticabile durante i viaggi aerei. Quelli di lavoro si trasformavano in uno show continuo, anche perché l’ambiente dell’aereo si presta facilmente allo scambio di battute. Nel marzo del 1994 l’Inter andò a giocare un quarto di finale di Coppa Uefa a Dortmund e Franco si autoinviò per Il Giorno. Nelle ore che precedevano la partita Roberto Tavecchio, vicepresidente del club nerazzurro che voleva rilevare la società da Ernesto Pellegrini, chiese di incontrare i giornalisti a pranzo. Ne disse di tutti i colori contro Bagnoli, che era stato esonerato da poco, ma anche su altri aspetti del mondo nerazzurro di quel momento. Alla fine puntualizzò: “Mi raccomando, questa è stata solo una colazione tra amici”. Risposta di Franco: “Io non sono suo amico e questa non è una colazione. Solo i ricchi fanno colazione a mezzogiorno, io non sono ricco e a quell’ora pranzo. Comunque scrivo tutto”. Tavecchio sbiancò e passò alcune ore di angoscia assoluta, provò a mandare qualche addetto stampa da Franco per capire cosa stesse per succedere ma la risposta fu secca: “Mi sembrate matti! Scrivo tutto”. Ovviamente non scrisse nulla di quello che Tavecchio non voleva leggere, si limitò a prenderlo in giro definendolo “Il vicepresidente dagli occhi color ardesia”. Erano giorni di grande forma per Franco, che al ritorno si esibì anche in fase di atterraggio a Malpensa. L’aereo stava scendendo e la visibilità era molto ridotta. Più si scendeva più il velivolo veniva avvolto dalla nebbia. Nel silenzio assoluto Franco disse ad alta voce: “Oggi avrei proprio voglia di leccare la figa”. Una di quelle frasi che in punto di morte difficilmente si dicono. Franco non sapeva cosa fosse l’imbarazzo, né quando faceva battute né quando era serio.
La grande fortuna, che non molti hanno avuto, era quella di trascorrere una parte di vacanza insieme a Franco. C’era solo un dazio da pagare: fino a quando sugli aerei è stato consentito di fumare lui costringeva i suoi compagni di viaggio a sedersi nella zona dei fumatori. Seguirlo in Brasile nelle sue avventure però ripagava di qualsiasi sacrificio. In giro per Fortaleza conosceva decine di posti e centinaia di persone, aveva sempre un tassista pronto a portare in giro lui e i suoi amici a prezzi di favore. E poi con Franco si facevano conoscenze straordinarie. Poteva arrivare a un certo punto con due biglietti aerei in mano e dire: “Andiamo a cena a Natal”. Il viaggio da Natal a Fortaleza è circa 50 minuti di volo, ma per lui era come camminare fino all’angolo di casa. In quella mezza giornata Franco riuscì a conoscere tale Abel che aveva una pistola nel borsello e tale João, un biondo del sud del Brasile che si accompagnava ad una delle donne più brutte del paese. Dopo mezz’ora di chiacchiere sulla spiaggia di Ponta Negra, da parte di Abel era scattato l’invito a cena e tutto sarebbe continuato con un’ospitata a casa sua, con tanto di compagnia femminile a scelta, se Franco a un certo punto non avesse deciso che era meglio tornare a Fortaleza con il volo di mezzanotte. A Rio de Janeiro, dopo aver girato per due giorni con il taxista Jorge (armato di rivoltella pure lui) e il suo amico Tininho, si scoprì che Tininho era un ex capo della favela con qualche decina di omicidi sulla coscienza. Eppure piangeva come un bambino al momento di salutare l’amico Franco che stava partendo per tornare in Italia.
In quel gennaio del 1990 Franco si esibì in un numero che pochi avrebbero potuto mettere in pratica. All’aeroporto di Rio de Janeiro, all’atto dell’imbarco per Milano, si ricordò che il caposcalo, tale Bibi, era amico di Franco Dal Cin, il dirigente di Udinese e Inter che aveva portato Zico in Italia. Franco andò dal signor Bibi regalandogli una maglia di Maradona (la 10 del Napoli allora era una rarità, non esisteva il merchandising come adesso) e gli fece capire che avrebbe gradito l’upgrade dalla classe economy alla business. Bibi faceva finta di non capire ma quando vide spuntare dalle mani dei suoi due interlocutori due biglietti da cento dollari afferrò al volo quello che doveva fare. Su quel volo Varig Rio-Milano erano imbarcati alcuni ex giocatori che erano stati a Rio per un’amichevole di esibizione, tra cui Franco Causio e Spillo Altobelli. Loro, gli ex giocatori, viaggiarono in economy.
Un trattamento a parte merita la storia di Gaetano, uno dei migliori amici nella vita di Franco. Faceva il tassista e Franco lo conobbe come solo lui poteva conoscerlo. Un giorno, mentre andava dalla redazione a casa in taxi, notò che Gaetano aveva Tuttosport appoggiato sul sedile e stava sacramentando: “Questo giornale non lo sopporto più, soprattutto quel Franco Rossi scrive un sacco di cazzate”. Ovviamente Franco si presentò e nel giro di pochi giorni i due erano diventati amicissimi. Pian piano Franco convinse Gaetano a seguirlo in Brasile. Primo viaggio a Rio. L’ultimo giorno i due conobbero due ragazze di Fortaleza, Geovania e Claudia, cugine e molto più giovani di loro. Dopo una serata trascorsa a chiacchierare, le due ragazze invitarono gli italiani a Fortaleza lasciando il proprio indirizzo. Pochi mesi dopo Franco e Gaetano erano a Fortaleza, ma nel frattempo Geovania (che sembrava interessata a Franco) era scappata con un fidanzato non meglio identificato, fuga della quale lo stesso Franco rischiò di essere incolpato. Claudia era ancora su piazza ma l’apparente interesse iniziale per Gaetano si era molto affievolito. Così l’amico di Franco decise di lasciar perdere, ma prima di tornare in Italia conobbe Elzimar, commessa nel lussuoso grande magazzino Mesbla. In Italia Gaetano aveva una vita abbastanza grigia a monotona. Sposato da tanti anni, con una figlia a sua volta sposata, due nipoti che non gli davano moltissime soddisfazioni e un’amante con decorso ventennale che ormai era diventata assoluta routine. Gaetano decise che a strettissimo giro di posta si sarebbe trasferito a Fortaleza per vivere con Elzimar e così fece, facendo perdere completamente le sue tracce. Anche qui a Franco capitò qualcosa che solo a lui poteva succedere. La moglie di Gaetano un giorno si presentò sotto la casa di Franco in via Cucchiari e iniziò a urlare: “Bastardo! Mi hai rubato il marito”. Comunque Gaetano dopo un po’ di tempo si fece vivo e avviò le pratiche per il divorzio in grande serenità. Si risposò con Elzimar e visse alcuni anni felici a Fortaleza, ma si spense a Palermo durante uno dei suoi ritorni in Italia a scadenza più o meno semestrale. Gaetano è la summa dei compagni di viaggio di Franco, privilegiati a cui è sempre successo qualcosa di insolito. La capacità di attrarre i soggetti più estremi era una caratteristica di Franco, che lo rendeva ancora più unico.
(Estratto di ‘A cena con Franco Rossi – Storia e storie di un giornalista’, di Stefano Olivari e Enzo Palladini)