Allardyce, più di Big Sam

12 Marzo 2021 di Roberto Gotta

Crystal Palace-West Bromwich Albion, vite parallele. Tra gli allenatori del Crystal Palace tra il novembre del 2013 e oggi ci sono Tony Pulis, Alan Pardew, Sam Allardyce e Roy Hodgson. Tra gli allenatori del West Bromwich Albion dal febbraio 2011 ad oggi ci sono stati Roy Hodgson, Tony Pulis, Alan Pardew e Sam Allardyce, ora in carica da metà dicembre.

Non è una coincidenza che i club abbiano avuto questi quattro tecnici in comune. In questi anni, infatti, entrambi si sono spesso trovati in difficoltà e per uscirne hanno fatto ricorso a specialisti delle salvezze, dei salvataggi a corto raggio, anche se in realtà nessuno di loro ha solamente quella dote, e non è certo la prima che venga in mente pensando a Pardew e Hodgson. È però quella che a Pulis e Allardyce è rimasta più appiccicata e specifica.

Assieme ad un’altra, che dote non è: quella di far giocare alle proprie squadre un calcio essenziale, rozzo, minimalista. Il tipo di calcio che spesso serve per uscire dai guai, specialmente quando non hai il tempo di applicare chissà quali teorie e già dalla prima partita devi scavare nel fango. E allora vai con gli stereotipi. Che a parole non piacciono a nessuno, specialmente a chi ne è vittima, ma che alla fine nascono sempre da qualcosa di concreto, qualcosa magari di transitorio che viene però cementato come dogma e da lì nessuno lo schioda.

Prendiamo Allardyce, 66 anni, il cui WBA è in trasferta proprio contro il Crystal Palace in una delle partite forse meno attraenti del fine settimana di Premier League, perlomeno per chi per ‘Premier League’ intende quelle 5-6 squadre famose e niente altro. Allardyce, intanto, per tutti è Big Sam. Nulla di male, visto che è 1.90 di statura e non ha mai avuto un fisico striminzito, ma quando il soprannome di un allenatore britannico inizia con Big lo stereotipo irrompe e oscura qualsiasi altro elemento: Ron Atkinson, 82 anni tra una settimana, è Big Ron e basta, non tanto per i suoi successi – due Coppe dInghilterra e due Coppe di Lega con Manchester United, Sheffield Wednesday e Aston Villa, ai tempi in cui quei trofei valevano ancora qualcosa – quanto per la sua personalità esuberante e i suoi eccessi anche stilistici.

E Malcolm Allison? Scomparso nel 2010 a 83 anni, già prima di dover interrompere prematuramente la carriera di calciatore si era fatto notare per la sua critica della ragion pura del football, quel correre e correre, senza neanche vedere la palla, che costituiva il 90% degli allenamenti dei primi decenni. Formatosi al West Ham United, membro attivo delle discussioni tecniche che si svolgevano nelle fumose stanze del Cassettari’s Café lungo la Barking Road con giocatori e futuri allenatori, Allison portò la sua brillantezza al servizio del Manchester City vincitutto di fine anni Sessanta, facendo da assistente dell’allenatore Joe Mercer con compiti tattici, poi riuscì, pur gestendo un Crystal Palace che cadde dalla prima alla terza serie, a diventare un mito per la sua scelta di cambiare i colori e il soprannome del club, e successivamente vinse in Portogallo un titolo con lo Sporting Lisbona. Ma per tutti è Big Mal, il personaggio che, in quel 1975-76 in cui il Palace da squadra di Third Division raggiunse una memorabile semifinale di FA Cup, girava con Borsalino e cappotto con collo di pelliccia e sembrava comparire in ogni foto con sigaro e bottiglia di champagne. È la prima immagine che viene in mente, più ancora dei suoi successi e delle innovazioni portate nel calcio.

Ecco, per Allardyce è quasi la stessa cosa. Calcio rozzo, uno schiaffo allo stile e alla qualità. Con la curiosa coincidenza, nel suo caso, di essere stato chiamato nel 2011 dal West Ham e nel 2017 dall’Everton, due club che portano con sé soprannomi di un certo tipo: the Academy of football e School of science. Nati per caso, sono stati presto presi come slogan e proclama, e chiunque alleni una delle due e mostri di non avere l’idea di calcio giusta viene prontamente criticato.

Ad Allardyce accadde al West Ham, in una vicenda molto particolare: al primo colpo, infatti, riportò il club in Premier League, anche se solo nella finale dei playoff, mentre nel 2017-18 risollevò un Everton che con Ronald Koeman era partito male. Al Boleyn Ground restò poi fino a fine contratto, nel giugno del 2015, sotto un crescente scetticismo per lo stile di gioco che portò parecchi tifosi a chiederne la cacciata nonostante risultati dignitosi, mentre a Goodison Park non arrivò alla conclusione dell’accordo, preferendo uscirne con dodici mesi di anticipo, nel 2018, brontolando – comprensibilmente – per la mancanza di rispetto di molti nei suoi confronti. Al West Ham, va detto, non lo amavano più che altro gli addetti alle pulizie: un dipendente del club ci confidò le difficoltà che c’erano state, in quei tre anni, a togliere dall’area tecnica di fronte alla panchina le gomme da masticare che Allardyce masticava in continuazione, per poi sputarle per terra.

È anche vero che nel frattempo c’era stato il disastro alla guida della nazionale inglese. Scelto nel 2016 come successore di… Hodgson tra alcune perplessità – sempre per i motivi di cui sopra, e soprattutto sotto – durò una partita, la vittoria in Slovacchia nelle qualificazioni per i Mondiali del 2018, perché subito dopo fu costretto a dimettersi: alcuni giornalisti del Daily Telegraph, fingendosi imprenditori asiatici, gli avevano proposto di aiutarli ad aggirare le norme federali che vietavano il possesso del cartellino di giocatori da parte di aziende e non di club, e Allardyce si era detto disposto ad aiutarli, tramite agenti amici, in cambio di 400.000 sterline. Curiosamente, per l’accordo Allardyce aveva preteso un contratto scritto e correttamente aggiunto «tutto questo va approvato dalla federazione», ma il fatto che si fosse prestato a una manovra illegale lo fece cadere, anche perché mise alla luce un lato che già lo aveva contraddistinto da giocatore, ovvero l’avidità. Se n’era autoaccusato pochi mesi prima, nella sua autobiografia, ricordando come nella sua lunga carriera da giocatore avesse troppe volte scelto il club in base al compenso e non al prestigio o alla possibilità di vincere un trofeo. Né si può parlare di strascico psicologico di un’infanzia di stenti, dato che non risulta che la famiglia – il padre era poliziotto – abbia mai avuto rilevanti problemi economici. E già nel 2006 un’inchiesta di Panorama, rubrica della BBC, aveva ipotizzato che Allardyce, tramite il figlio, avesse preso mazzette da agenti per firmare loro giocatori per il Bolton Wanderers, sua squadra dell’epoca. Insomma, cosette pesanti.

E il calcio? Be’, il calcio… è altro discorso ancora, ed è in realtà qui che lo stereotipo vero resta attaccato, ma in modo curioso, se si segue la formazione di Allardyce come allenatore. Allardyce, infatti, è stato tra i primi inglesi a diversificare le tecniche di allenamento e di preparazione, a studiare in maniera accurata gli avversari e a programmare le partite contro di loro in base ai loro punti di forza e punti deboli. Un approccio nato in una circostanza particolare: nell’estate del 1983, infatti, Allardyce giocò per un paio di mesi nei Tampa Bay Rowdies della North American Soccer League, e dato che i Rowdies si allenavano nello stesso impianto dei Buccaneers della NFL poté osservare da vicino come si preparasse al campionato una squadra professionistica di football sul piano atletico, logistico, nutrizionale.

Quella visione lo ha accompagnato negli ultimi 38 anni, dettandogli metodi e pratiche: fu il primo, già a inizio carriera di allenatore negli anni Novanta, ad utilizzare pratiche per quei tempi innovative come yoga, crioterapia, psicologia dello sport, preparatori atletici, un alto numero di assistenti specializzati in singole aree tattiche e analisi degli avversari sul piano statistico, legandosi prestissimo a ProZone, il primo servizio di analisi calcistica. E cosa faceva un allenatore con rose di livello non altissimo, in club di mezzi economici non esagerati? Le utilizzava al meglio, preparandole secondo le linee tattiche più utili. Se hai pochi giocatori con i piedi buoni, perché quelli finiscono in maggioranza ad altre squadre, fai in modo di ridurre il divario mettendola sul piano fisico, sulla riduzione del numero di passaggi utili ad andare al tiro, sul dominio nel gioco aereo.

Alcune edizioni del Bolton Wanderers di Allardyce furono costruite in maniera perfetta per l’uso che se ne doveva fare: in avanti, ma anche a volte all’ala in un 4-5-1 (celebre in questo senso l’utilizzo di Kevin Davies, nato centravanti ma non imponente però un guerriero su tutti i palloni alti, e giocatore con più falli commessi e subiti nella storia della Premier League), a vincere i duelli aerei e favorire così le cosiddette seconde palle ad uso dei giocatori più tecnici, come i Djorkaeff, Okocha, El Hadjii Diouf, che non ebbero alcun problema a giocare per un presunto troglodita del calcio perché avevano compreso il metodo nascosto dietro l’apparente semplicità della filosofia.

Michael Cox, nel suo libro The Mixer, eccezionale riassunto della storia tattica della Premier League, si concentra proprio su questo aspetto: grazie all’analisi di dati degli avversari e dei propri giocatori Allardyce poteva battere ripetutamente squadre come l’Arsenal e il Liverpool perché, per paradosso, «Ci sono allenatori come Arséne Wenger o Brendan Rodgers o Manuel Pellegrini che hanno creato un sistema e non lo cambiano. Le mie squadre invece si comportano in base alle caratteristiche altrui e proprio perché gli altri non le cambiano mai siamo spesso stati in grado di batterle». Prima di ogni partita ai giocatori veniva indicato l’avversario più fragile in possesso di palla, quello che più facilmente l’avrebbe persa o passata male se attaccato, e si procedeva sempre – altro elemento che sembra normale, ma che viene in realtà dal football americano – al cosiddetto self scouting, ovvero analizzare la propria rosa come se ci si dovesse giocare contro, per scoprirne punti deboli e potenziali aree di miglioramento. È anche così che Davies venne spostato sempre più all’ala e che altri giocatori vennero trasformati di ruolo, con successo.

«Non sono adatto al Bolton o al Blackburn, sarei più adatto all’Inter o al Real Madrid. Non avrei problemi là, vincerei il campionato tutti gli anni… Datemi anche il Manchester United o il Chelsea e finirebbe alla stessa maniera. Le squadre che ho allenato non erano quelle più adatte a me, semplicemente quelle in cui sono restato di più». Queste frasi, del settembre 2010, prima di una partita tra il suo Blackburn Rovers e il Fulham, sono state spesso rinfacciate ad Allardyce, prima di tutto perché ingenerose verso i suoi datori di lavoro, e in secondo luogo per la loro presunzione. Ma in realtà Allardyce, che in quella stessa intervista difese anche il collega Mark Hughes, lamentava semplicemente il fatto che la sua preparazione calcistico-scientifica non fosse inferiore a quella di nessun altro, da pioniere quale era stato. E che nel suo caso, come in quello di Hughes, si avesse la tendenza a sottovalutare il lavoro fatto, come invece già da tempo non accadeva con allenatori stranieri. Avvertiva già da tanti anni, Allardyce, il pericolo della categorizzazione, dello stereotipo: un po’ come il giovane attore che si afferma facendo il coatto e il coatto si ritiene che possa sempre e solo fare o il giornalista che diventa direttore per grazia ricevuta e viene successivamente chiamato a svolgere il medesimo ruolo a prescindere dalla competenza.

Allardyce poi ha sprecato la grande chance, con l’Inghilterra, ed è anche capitato in situazioni particolari anche quando le premesse parevano ottime: il suo arrivo nel 2007 al Newcastle United, grande club bisognoso solo di una piccola spinta per accendersi, coincise con il passaggio di proprietà a Mike Ashley, non particolarmente disposto a spendere decine di milioni, e dopo pochi mesi il rapporto si chiuse, seguito dal periodo di successo ma anche critiche al West Ham.

Ora, con il West Bromwich, la sua reputazione di allenatore mai retrocesso dalla Premier League, di cui si vanta parecchio, è pressoché compromessa: la squadra è scarsa, prende tonnellate di gol (56 in 28 partite, contro i soli 20 segnati), ha solo 2-3 giocatori in grado di costruire qualcosa e ha avuto pochissimo dal più atteso, Matheus Pereira, il brasiliano cresciuto in Portogallo che gioca a destra o dietro l’unica punta (Mbaye Diagne) firmato con un quadriennale l’estate scorsa, dopo l’eccellente stagione in prestito (dallo Sporting Lisbona) in Championship nel 2019-20.

La salvezza sarebbe a soli otto punti, al momento, e otto punti sono pochini con ancora dieci partite da giocare, ma quella che manca è proprio la qualità, come del resto ha suggerito lo stesso Allardyce dopo la prima vittoria della sua gestione, quella del 18 gennaio a Wolverhampton, squadra per cui tifava da ragazzino cresciuto lì vicino, a Dudley, capoluogo della cosiddetta Black Country, una zona dove già dal Settecento l’industria pesante e mineraria ha lasciato segni nei colori, nei paesaggi, nella testa e nella salute delle persone.

Ma attenzione – tanto per tornare all’inizio – agli stereotipi: non è vero che da qui potessero venire solo operai del calcio, non è vero che tutti dovessero essere come l’Allardyce difensore centrale che – citazione di un compagno di squadra – se non arrivava alla palla arrivava alle palle (dell’avversario), perché da Dudley è uscito anche Duncan Edwards, il sublime talento che promessa era e promessa è rimasto, perché purtroppo scomparso nel disastro aereo di Monaco che decimò nel 1958 il grande Manchester United.

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