Urania, la Milano che non deve vincere

8 Dicembre 2019 di Stefano Olivari

L’Urania Milano è una realtà che smentisce molti luoghi comuni sulla pallacanestro italiana. Ieri sera ancora una volta ce ne siamo resi conto di persona, assistendo al Palalido alla vittoria dei ragazzi di coach Villa sui Roseto Sharks, in una partita fra due squadre con la massima ambizione di stare a centro classifica nel girone Est della Serie A2. Che ci fossimo noi tossici non è una notizia, che però ci fossero 2.800 persone è già più interessante.

Come molti appassionati di basket sanno, Milano non aveva due squadre in Serie A (considerando tale anche la A2) dalla stagione 1979-80, quando nella allora A1 giocavano il Billy di Dan Peterson (era l’anno dopo la finale scudetto raggiunta dalla leggendaria Banda Bassotti, copyright Oscar Eleni) e l’ultima versione professionistica della Pallacanestro Milano, quella che era stata la squadra di Joe Isaac e Chuck Jura, prima della sua discesa nelle minors, dignitosa per qualche anno e poi tristissima.

L’Amaro 18 Isolabella, allenata per sei partite da Tom Heinsohn (non stiamo scherzando, pochi anni prima aveva guidato i Celtics a due titoli NBA) e poi da Bruno Boero, giocava le sue partite casalinghe al Palalido davanti ad una media di 1.500 persone, fra le quali noi. Mentre il Billy-Olimpia, più ambizioso, giocava di base nel Palazzo dello Sport di San Siro, con qualche puntata al Palalido dove comunque era di casa, davanti a 3.500 persone di media (fra le quali ancora noi, era l’anno di Bonamico: avessimo 12 anni oggi magari passeremmo la domenica pomeriggio su Instagram, chi può saperlo?), che aumentavano soltanto per Cantù, Varese e per il derby. Fra l’altro l’ultimo derby milanese in Serie A fu giocato proprio al Palalido, nonostante teoricamente il Billy fosse in casa, per l’indisponibilità del Palazzone. In altre parole, la somma del pubblico di due club milanesi di Serie A era la metà di quelli che qualche giorno fa abbiamo visto in Olimpia-Sassari.

Ma cosa volevamo dire? Che nonostante il mantra giornalistico del ‘Qui si può solo vincere’, sentito anche a Roma, Napoli, Torino, eccetera, quando ci sono state da giustificare incapacità e mancanza di progetti, in alcuni casi anche disonestà, nel 2019 esiste per la pallacanestro italiana un pubblico nuovo, testimoniato dai 10.000 del Forum ormai quasi fissi e dai 2.800 per la A2 al Palalido, molto superiore a quello di una presunta età dell’oro in cui oltretutto non potevamo vedere la NBA e delle coppe europee si intravedeva un secondo tempo a settimana, per quanto commentato da Aldo Giordani.

Se tutto ciò che ha fatto Giorgio Armani, prima come sponsor e poi come proprietario dell’Olimpia, è noto (nel 2008 il club stava fallendo e non c’era nessuno alla porta), la scommessa dell’Urania di Ettore Cremascoli è stata vinta in maniera ancora più inaspettata, almeno per i media. Perché la A2 non è la Serie A, come è ovvio, ma soprattutto perché non esisteva un pubblico per così dire del passato. Non stiamo parlando della Fortitudo o di Treviso degli anni scorso, nobili decadute prima del ritorno in A, ma di una realtà conosciuta soltanto a livello giovanile e che, a dirla tutta, non ha mai prodotto fenomeni.

Non è la rinascita nostalgica della Pallacanestro Milano, che comunque ormai non segue nessuno e non certo perché gioca in C Gold: forse negli anni Ottanta e Novanta qualcosa si sarebbe potuto fare, ma adesso quella base di tifosi (peraltro modesta, possiamo testimoniarlo) è anagraficamente finita. Un’occasione persa per mancanza di idee, una delle tante. Quando nel 2009 con Giorgio Specchia scrivemmo e pubblicammo L’Altra MilanoDall’oratorio a Jura, la generazione della pallacanestro, quel clamoroso successo (400 persone alla presentazione, per i libri successivi non saremmo mai andati oltre le 20) fece pensare a qualcuno che con un pubblico ‘servito’ così l’operazione seconda squadra di Milano sarebbe stata più che fattibile.

Un’operazione che sarebbe stata graditissima all’Olimpia, fra l’altro, che in più occasioni fece capire che lì avrebbe potuto mandare in prestito il Fontecchio della situazione. Tanti incontri, a qualcuno siamo stati anche presenti, tante parole, ma poi alla fine la fatidica domanda: e se fosse un fallimento? Certo prima di farle, le cose, è impossibile saperlo. Per questo gli imprenditori sono il motore di un paese e più modestamente anche di uno sport.

Eppure nonostante l’assenza di questa base di tifosi ‘vecchi’ per l’Urania il tam tam baskettaro degli amici degli amici ha creato un ambiente del tutto nuovo, nonostante l’unica ambizione sia realisticamente quella della sopravvivenza in una A2 dove comunque bisogna tirare fuori soldi veri. Una sconfitta per tanti addetti ai lavori della parrocchietta, che in 40 anni hanno deriso e scoraggiato chi pensava ad una seconda squadra almeno decente a Milano e che nonostante i fallimenti delle operazioni Arese e Desio proponevano improbabili abbinamenti con Legnano, Casalpusterlengo, Treviglio, eccetera.

Uno dei migliori ci diceva seriamente “Ma chi è che a Milano verrebbe di sera, con il freddo, a vedere una partita di A2 contro Agropoli? La gente non sa nemmeno dove sia, Agropoli”. Eppure non occorre un genio del marketing per intuire che le briciole, come visibilità mediatica, di una città valgono più del sostegno compatto di un paese più piccolo. La squadra costruita dal general manager Biganzoli è stata sì profondamente rinnovata rispetto al roster della Serie B (di fatto sono rimasti solo Andrea Negri e Giorgio Piunti), ma in maniera coerente con la A2: non è che siano arrivati Doncic e LeBron, eppure i ragazzini che secondo molti guarderebbero soltanto la NBA erano al Palalido in massa.

Nei vari decenni abbiamo visto tanti, in tutta Italia, buttare via soldi senza alcun ritorno e senza nemmeno sostenere l’attività di base, anzi. Per questo il successo dell’Urania lo riteniamo una nostra piccola vittoria, anche se di questa realtà siamo soltanto spettatori. Ribadiamo il solito concetto: la pallacanestro non è un genere di prima necessità, se non ci sono soldi o un qualche tipo di ritorno per tenerla in vita allora è giusto che sparisca. Ma quando c’è interesse è un delitto lasciar perdere.

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