Il cuore armeno di Mkhitaryan

22 Maggio 2019 di Indiscreto

Henrikh Mkhitaryan non giocherà la finale di Europa League a Baku per motivi di sicurezza, non soltanto sua. Questa triste notizia va oltre l’Arsenal-Chelsea della settimana prossima, perché ha il merito di ricordarci che in Europa esiste uno stato, la Repubblica dell’Artsakh, di cui nessuno parla e che quindi ci interessa.

Una situazione nata con la fine dell’Unione Sovietica, nel 1991, e il riemergere di identità che per tutto il secolo breve erano state tenute a bada dall’autoritarismo comunista, dopo che nell’Ottocento ci aveva pensato quello zarista. Dal punto di vista amministrativo, però, il Nagorno-Karabah fu assegnato all’Azerbaigian da Stalin…

Nagorno è un nome russo, Karabah turco, mentre Artsakh è l’antico nome armeno di quella terra (per cercarla su Google Maps trascinate verso il Caucaso) abitata prevalentemente da armeni di religione cristiana. La guerra scoppiata quasi subito dopo la fine dell’URSS portò a scappare verso l’Azerbaigian propriamente detto gli azeri dell’Artsakh, con fuga dall’Azerbaigian di quasi tutti gli armeni. Nel 1994 una pace mai ufficializzata fra Armenia (al 95% cristiana) e Azerbaigian (al 96% musulmano), e 40.000 morti sul campo, per tre quarti azeri.

E una regione, appunto l’Artsakh, diventata da un quarto di secolo uno stato di cui non si può dire che sia uno stato: una logica annessione all’Armenia farebbe scoppiare di nuovo la guerra, ma del resto si può capire, con buona pace di Bergoglio, perché 150.000 cristiani non abbiano tutta questa voglia di far parte di un paese musulmano di 10 milioni di abitanti come l’Azerbaigian. Pensare che qualche fuoricorso italiano voglia manifestare per l’Artasakh è fantapolitica, però ogni tanto arriva la realtà a ricordarci che quello che siamo dipende anche da come ci vedono gli altri. Possiamo fare i cosmopoliti della mutua, ma per un armeno o un azero rimaniamo italiani (non che sia un pregio o un difetto, è un fatto).

Quanto a Mkhitaryan, ci è particolarmente caro perché qualche anno fa, sotto i ferri di un bravo chirurgo suo omonimo (era infatti armeno), prima dell’anestesia dopo qualche battuta sul cognome ci mettemmo a parlare della sua posizione nel Borussia Dortmund di Klopp. Uno di quei casi in cui il il primo comandamento del Muro del Calcio (Non serve guardare le partite per poterne parlare) ci è tornato utile.

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