Vidi Oman quant’è bello

16 Febbraio 2014 di Raffaele Brattoli

Chi pensa che una gara di 300 chilometri no stop sia noiosa, insignificante e lenta fino allo sfinimento si sbaglia. Con un pizzico di incoscienza e di sana (?) follia mi sono iscritto alla Transomania: per dedicarla a Claudio Bonaiti, un grande atleta e amico scomparso lo scorso 10 ottobre. Con lui ho condiviso gare, momenti felici, scherzosi, problemi di vita e di lavoro, il deserto dell’Oman mi chiama e io rispondo. La TransOmania è una gara che attraversa coast to coast l’Oman, sultanato d’Arabia, dal Golfo di Oman al Mar Arabico passando per montagne di 2.000 metri, lunghi canyon, alte dune sabbiose fino all’agognata spiaggia, l’arrivo! Ma forse è meglio cominciare dall’inizio…

Ore 21: si parte dalla White Beach e ci dirigiamo verso le alte cime salendo subito un muro di 1.000 metri sino al Wadi Bani Khalid, su per le insidiose montagne sotto un cielo stellato che solo il deserto può dare e con una luna calante talmente bella che sembra una barca d’oro che galleggia nello spazio infinito. Dopo poche ore entriamo nel cosiddetto “labirinto”, un percorso assurdo e non facile da superare. Presto capirò il perché del suo nome. Lì, insieme al mio amico Oliviero, infatti, perdo almeno 5 ore per ritrovare la strada giusta: le capre purtroppo hanno mangiato tutti i nastri di segnalazione e i beduini hanno rubato tutte le aste con la bandiera rossa e le balise notturne che avremmo dovuto trovare a ogni chilometro del nostro passaggio. Un vero incubo. Arriviamo al secondo cancello, una specie di checkpoint, con solo 2 ore di anticipo rispetto al tempo massimo oltre il quale saremmo stati estromessi dalla gara. Ecco le piscine naturali del Wadi Bani Khalid, siamo all’80esimo chilometro. Il mio amico si ritira, io riparto affrontando la seconda notte tra canyon che si susseguono, freddi con il buio, aridi, bollenti, noiosi di giorno. Supero questi 145 chilometri molto tormentati. Poco dopo le 21 arrivo quasi a metà gara, all’oasi Safari Camp, che si trova nel cuore del deserto. Cambio le calze medicandomi i piedi già feriti, mangio purè liofilizzato pronto all’uso, con parmigiano e olio, e riparto. Il percorso è molto lungo e gli occhi mi si chiudono, mi concedo qualche microsonno da 10-15 minuti, mantenendo la luce frontale accesa, per essere visto, e lo zaino che mi fa da cuscino. Durante la corsa notturna vedo topolini bianchi che mi girano intorno e le impronte sulla sabbia di serpenti, lucertole, scarabei, cammelli e altro che non voglio sapere. Cerco di non distrarmi per non perdere di vista il percorso, le segnalazioni sono rare e difficili da interpretare.

E’ l’alba e arriva il CP7, bevo dell’ottimo succo di mango e mi fermo una mezz’ora steso sul materassino dello staff per un breve relax prima di  ripartire verso la Washiba Sand, il vero deserto di pura sabbia, l’habitat che amo di più per correre. 130 km al traguardo, la strada è ancora molto lunga, il paesaggio delle grandi dune è incredibile, il loro colore varia continuamente dal marrone al rossiccio, al giallo fino a sfumare nel bianco. Verso le 12 il sole si fa molto caldo, fino a 45 gradi, l’umidità è al suo apice e solo verso le 16, quando il sole comincia a calare, si torna a respirare, ma riprende l’insidia della notte. Eccomi alla terza notte e sono sempre solo, solo e ancora solo; spero che passi velocemente. Incomincio ad avere visioni e allucinazioni dovute alla stanchezza: immagini angeliche e infernali si alternano e mi fanno compagnia fino al sorgere del nuovo giorno.

Passo il CP9, il sole sorge lentamente tra le dune e sono incantato da questa natura strana e selvaggia che solo i dromedari riescono a vivere senza difficoltà. Ma ecco che l’imprevisto è dietro l’angolo. Mi si avvicina un gruppo di beduini sul loro vecchio pick up, mi chiedono cibo e io offro le mie barrette che non ho mangiato; sbraitano qualcosa di incomprensibile nella loro lingua, sembrano arrabbiati e con vera prepotenza mi strappano dalle mani il sacchetto coi viveri. Resto sorpreso ma non reagisco, sono paralizzato. Nel deserto sono a casa loro e non ci metterebbero nulla a tagliarmi la gola e seppellirmi sotto la sabbia facendomi sparire in pochi secondi. Per fortuna mi rimane l’acqua e il mio zaino con il rimanente materiale tecnico, ma la strada si fa ancora più lunga senza cibo… la temperatura sale e il sole mi cuoce, utilizzo l’acqua più del previsto per bagnarmi la testa ma mancano ancora 2 ore al CP10 e così cerco di razionarla. Passo dopo passo comincio a vedere tutto nero, le immagini si confondono, barcollo, sbando ma riesco a prendere dallo zaino il GPS di soccorso e a premere l’SOS, dopodiché buio. Mi risveglierò frastornato un’ora dopo al CP10. In questa postazione non c’è medico né attrezzatura di emergenza, sono comunque fortunato, forse un angelo amico mi ha accompagnato e salvato. In questo check point ritrovo Oliviero che mi accudisce, ricevo un po’ di cibo da altri concorrenti; in questo tipo di gare la solidarietà esiste. Solo al tramonto l’organizzazione mi dà l’ok per ripartire.

Raggiunto da Paolo, riparto con lui. Siamo alla quarta notte e il saliscendi delle grandi dune diventa massacrante, sprofondo oltre le caviglie e le scarpe usurate stanno ormai cedendo. Le ghette non hanno più elasticità, fanno entrare la sabbia provocandomi abrasioni e dolore con vesciche profonde e ulcerate. Incontriamo un concorrente francese che si ritirerà a soli 50 km dalla fine, cerchiamo di convincerlo a seguirci ma allucinato e stanco da questa lunga tortura si rifiuta, dicendo di aver già chiamato con il GPS l’intervento dei mezzi di soccorso. Finalmente arriva l’alba, con la luce del giorno tutto si ridimensiona. Proseguo sotto il sole che diventa sempre più cocente ma, anche se stanco e avvilito, sono sempre più convinto di farcela. Ma sì, ormai ce l’ho fatta, il traguardo di Imlil Beach è mio!

Ho attraversato chilometri di montagne rudi e difficili, chilometri di canyon e pianure umide e assolate, lande desertiche tra dune e sabbia morbida, ma ora sono al traguardo, alla spiaggia di pescatori. Tiro fuori la bandiera italiana con la scritta “Claudio forever” e volo negli ultimi metri, commosso e felice pensando di avere avuto al mio fianco per 300 km un angelo custode che mi accompagnato in questa ennesima avventura.

Raffaele Brattoli, dall’Oman

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