Sharing economy, l’affitto di noi stessi

6 Agosto 2015 di Indiscreto

I talk show sono pieni di gente esaltata per la cosiddetta sharing economy, che da diverse sponde politiche (in Italia tutte: piace all’elettore di PD, Cinque Stelle e Forza Italia, soprattutto quando riguarda i figli degli altri) è vista come un qualcosa di positivo: meno auto per le strade pur avendo a disposizione un’auto, meno case piene di libri e  dischi che non si toccheranno per il resto della vita, meno case in generale dal momento che la mobilità verrà favorita sia dai prezzi che dalla facilità amministrativa, in generale meno ‘cose’ di proprietà. Un beneficio per l’ambiente, per la flessibilità fisica e mentale, probabilmente anche per il conto corrente dei consumatori, che non avranno più beni da ammortizzare.

Chi si oppone alla sharing economy viene preso per vecchio e nemico del progresso, per questo consigliamo la lettura dell’articolo di Olivier Blanchard sull’argomento, segnalatoci da Andrea Ferrari fra un ristorante di tendenza e l’altro (in questo momento predilige il Calafuria, da amante del surimi quale è). Blanchard , da noi preso ignorantemente per il capoeconomista del Fondo Monetario Internazionale (suo omonimo, questo Olivier Blanchard fa invece il giornalista) parte dal concetto di ‘distruzione’, caro agli estremisti del liberismo, per evidenziare che la distruzione crea valore soltanto quando produce qualcosa, non necessariamente di materiale, o risponde a un bisogno, non quando sostituisce il mercato ‘vecchio’ con un mercato ‘nuovo’ esattamente uguale, dove l’abbassamento dei prezzi non dipende da un’innovazione tecnologica o organizzativa ma soltanto dal pagare meno il lavoro.

Bisogna dividere i buoni dai cattivi, dove i buoni sono quelli che creano qualcosa (esempio classico Apple) che può piacere o non piacere ma che rappresenta valore, mentre i cattivi sono quelli tipo Uber e AirBnb che fanno dipendere le loro tariffe migliori soltanto dalla capacità di infilarsi in vuoti legislativi: se l’utente finale ha la sensazione di pagare ‘meno’ un taxi o una camera, e nel breve periodo è senz’altro così, la società ci ha comunque perso perché non è stato inventato niente e tutto è al ribasso, con i ricavi che possono garantire la sopravvivenza del lavoratore soltanto nel caso qualcuno esca dal mercato (traduzione: cambi lavoro, attenda il reddito di cittadinanza, si ammazzi).

‘Piracy is piracy’, dice Blanchard, che esempio dopo esempio arriva al vero punto della questione: una società in cui tutti siamo ‘contractor’, cioè imprenditori di noi stessi, è una bellissima utopia, ma paradossalmente è più di ostacolo alla mobilità sociale rispetto al nostro vecchio mondo, perché distrugge le basi culturali e finanziarie della classe media, che di tutti gli stati democratici è il fondamento non fosse altro che perché paga previdenza e assistenza anche per gli altri. La ricetta, si legge fra le righe abbastanza chiaramente ed in ogni caso la proponiamo noi, sarebbe quella di proteggere la classe media nei paesi dove la classe media esiste. Un lavoro sempre ricontrattato al ribasso, con poche eccezioni, permette di sopravvivere soltanto a chi detiene il capitale, dove il capitale non è l’invendibile bilocale di periferia ereditato dalla nonna. Il nostro potere contrattuale da ‘imprenditori’ non è esattamente lo stesso di imprenditori come Steve Jobs o Richard Branson, quindi la retorica della pseudo-condivisione porta quasi sempre verso il fondo.

“You aren’t sharing. You’re selling and renting little blocks of your life for a few bucks and giving your opt-in marketplace a cut of the action”. Non stiamo condividendo proprio niente, caro hipster o yuccie della porta accanto, stiamo soltanto affittando.

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