Sensi di colpa paralimpici

28 Agosto 2012 di Stefano Olivari

Fuori dall’ipocrisia, le Paralimpiadi sono una tassa che deve pagare chi vuole organizzare i Giochi veri, nel terzo millennio quella che era una consuetudine (rotta solo nel 1968 e nel 1980) è infatti diventata un obbligo. Bravi però a Londra a sfruttare l’entusiasmo di qualche settimana fa e a proporre a partire da domani quella che si annuncia come la migliore edizione di sempre (sarebbe la XIV), se non altro come successo di pubblico. Brave anche Rai e Sky nel tenere ‘alta’ la manifestazione, che al di là del poco interesse televisivo dà comunque un ritorno di immagine (è lo stesso motivo per cui una banca sponsorizza più volentieri la millesima mostra sul Pinturicchio invece che Miss Muretto) alle emittenti che la trasmettono. Va anche detto che quasi sempre chi racconta queste realtà si guarda bene dal fare giornalismo strappalacrime, puntando più sull’aspetto competitivo (primo fra tutti Claudio Arrigoni) che sul racconto delle varie disgrazie. Un po’ ci vergogniamo per la nostra freddezza da spettatori nei confronti dello sport per disabili, che nemmeno più si possono definire così (‘Persone con disabilità’, secondo il suggerimento del comitato paralimpico), ma un po’ anche no: la pratica sportiva, che ha pari dignità da Messi alla pesista non vedente Assunta Legnante (presente con la maglia azzurra a Pechino 2008 ai Giochi veri e adesso a Londra per quelli paralimpici), è cosa diversa dallo spettacolo sportivo. Un discorso che si può ampliare a discipline con scarso successo di pubblico o diffusione planetaria, per non parlare dello sport femminile. La vita è già abbastanza triste, non ci può mettere davanti alla televisione solo per senso di colpa. Ma colpa per cosa, poi? Il valore è cosa diversa dal successo.

Twitter @StefanoOlivari

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