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Ron Clarke, se questo è un perdente

Stefano Olivari 18/06/2015

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Ron Clarke era un perdente, tanto per non allontanarci troppo dagli schemi applicati a LeBron James o a chi osa essere sconfitto nella finale o giù di lì di una manifestazione: cosa che all’ex campione morto a 78 anni è capitata, visto che ha trovato chi è andato più forte di lui. Guardi i suoi record, li confronti con l’albo d’oro e subito il ‘perdente’ è in canna. Le cose non stanno proprio così, perché l’australiano ex recordman dei 10.000 metri con 27’39”4 e di tante altre distanze non olimpiche è stato un atleta a tempo pieno soltanto per pochi anni e quella che avrebbe dovuto essere la sua Olimpiade è stata anche la prima con l’Africa protagonista. Questo non gli ha impedito di diventare un modello per generazioni di mezzofondisti di tutto il mondo.

Nel 1956 aveva 19 anni e da liceale riuscì ad ottenere il minimo per i Giochi di Melbourne, ma c’erano tre connazionali più forti. Essendo però il miglior giovane mezzofondista del pianeta l’organizzazione lo scelse come ultimo tedoforo e fu quindi lui ad accendere la fiamma olimpica al Melbourne Cricket Ground. Clarke era il classico (ai tempi, oggi magari lo sport nazionale è la X-Box) australiano multisportivo, fra l’altro una promessa anche in quel football australiano di cui era stato un campione il padre ed era una stella il fratello. Dopo i Giochi fece qualche gara locale, poi decise di concentrarsi sugli studi e per quattro anni rimase fuori da ogni tipo di agonismo.

Con la laurea in mano la fiamma dell’atletica si riaccese e fu nel 1962, a 25 anni, che partecipò per la prima volta a una gara internazionale, ai Giochi del Commonwealth di Perth: un argento nelle tre miglia, dietro all’olimpionico (oro nei 5mila a Roma) neozelandese Halberg, una gioia inaspettata che lo indusse ad inseguire il sogno olimpico, con l’obbiettivo della partecipazione a Tokyo 1964 e poi del ritiro per dedicarsi a un lavoro vero. Mai infatti Clarke ha considerato l’atletica una professione, anche quando vi si è dedicato a tempo pieno. Senza particolari segreti nel 1963 Clarke esplose e conquistò a Melbourne il record nei 10mila, con 28’15″6. Qualificarsi per i Giochi fu facile, data l’assenza di confronti diretti fra i migliori ci si basava soltanto sui tempi e fu per questo che Clarke, assolutamente privo di cambio di ritmo (anche per un piccolo problema cardiaco, come si sarebbe scoperto decenni più tardi, che con i parametri di oggi nemmeno gli avrebbe permesso di fare una gara aziendale) venne considerato a Tokyo il grande favorito. I 10mila olimpici furono una gara bellissima e drammatica, ne abbiamo già parlato a proposito di Billy Mills: Clarke condusse la gara con un passo non lontano dal record, stroncò la resistenza di tutti tranne che di Mills e del tunisino Gammoudi. Ma fu soltanto bronzo, per i soliti problemi in volata. Corse i 5mila sotto una pioggia battente, finendo nono, e poi giusto perché era lì fu al via anche nella maratona: nono posto.

Ai giornali australiani disse che si riteneva soddisfatto, che chiudeva con Tokyo, poi cambiò idea senza nemmeno grandi incentivi finanziari (anzi, la federazione australiana pretendeva gran parte dei suoi ingaggi ai meeting per mantenergli lo status dilettantistico) e volle regalarsi altri quattro anni ad alto livello. Da lì partì una sfilata di record del mondo, coincisi con la partecipazione finalmente a gare anche in Europa: il 1965 rimane il suo anno migliore con i record sui 5mila e il 14 luglio a Oslo quello definitivo sui 10mila, per tacere di tutti gli altri in gare ovviamente sempre vittoriose. Nel 1966 il record definitivo sui 5mila, il 5 luglio a Stoccolma: 13’16″6. Il fenomeno Clarke non fu soltanto ristretto agli appassionati, perché nonostante l’assenza dei Mondiali e i meeting con una eco soltanto locale l’australiano diventò il più popolare atleta degli anni Sessanta fuori da logiche nazionalistiche. Nell’agosto del 1966 Clarke fece la conoscenza dei keniani ai Giochi del Commonwealt di Kingston e fu argento nei 3 miglia dietro a Kipchoge Keino (poi oro nei 1500 a Messico 1968 e nei 3mila siepi a Monaco) e nelle 6 dietro a Naftali Temu.

Nell’avvicinarsi ai Giochi del Messico Clarke si sentiva in grandissima forma, pur consapevole che gli africani avessero qualcosa in più. Finì sesto nei 10mila vinti da Temu e quinto nei 5mila, con necessità della maschera di ossigeno a fine gara. Il problema al cuore di sicuro con l’altitudine contò di più che a livello del mare, ma Clarke non cercò scuse ed infatti se ne è saputo soltanto di recente. La verità è che, non avendo un cambio di passo violento, nelle grandi manifestazioni difficilmente avrebbe potuto vincere. A questo punto poteva però ritirarsi in bellezza, con tutti i suoi record, ma il virus olimpico gli era entrato in circolo ed iniziò a pensare alla sua terza Olimpiade in pista, a Monaco 1972, a 35 anni. Ma quando un mezzofondista è in declino non si riprende più, così come avviene per i centrocampisti di fatica o ciclisti da gare a tappe. Ai giochi del Commonwealth di Edimburgo 1970 fu secondo, battuto dallo scozzese Lachie Stewart, nei 10mila, con un copione ormai consolidato.

Era arrivato il momento di dire addio, ben consigliato dalla moglie Helen. Da lì è partita una vita di successi come imprenditore, come scrittore e infine anche come politico: nel 2004 eletto sindaco di Gold Coast, non proprio un paesello (600mila abitanti) del Queensland, è sopravvissuto a tragedie personali (su tutte la morte di una figlia, di cancro) e nel 2012 non gli è riuscito il grande salto verso la politica nazionale ma è stato comunque l’artefice principale dell’assegnazione proprio a Gold Coast dei Giochi del Commnwaealth 2018. E poi, certo, non ha vinto l’oro olimpico.

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