L’alleanza contro Coppi

16 Settembre 2011 di Simone Basso

di Simone Basso
Con l’ennesimo Mondiale danese in vista, diventa obbligatoria una rievocazione storica del passato. Copenaghen infatti ospita la rassegna iridata per la quinta volta: se l’esordio fu assolutamente originale, ovvero una cronometro individuale di 170 chilometri vinta da Learco Guerra (era il 1931), l’edizione più particolare, colma di retroscena, fu quella del 1949.
Annata storica per la pedivella e lo sport italiano in generale; zeppa di glorie assolute e di tragedie altrettanto imponenti (Superga). Fu la stagione che definì la leggenda di Fausto Coppi: all’apice quantitativo e qualitativo, mai nemmeno sfiorato e avvicinato da altri fino alla comparsa del cannibalesco Eddy Merckx. Quel campionato mondiale di fine Agosto rilesse le vicende di quei mesi anche attraverso la partecipazione, decisiva, di un grandissimo del ciclismo elvetico, ovvero Ferdi Kubler. Il 1949 di Fostò nacque però come reazione, o vendetta, al trionfo di Bartali nel Tour ’48; messo in un angolo, mediaticamente, da un’impresa, quella di Ginettaccio, che ebbe intrecci politici celebrati ancora oggi.
L’airone di Castellania si preparò meticolosamente e già dalla Milano-Sanremo sfoggiò la pedalata dei giorni migliori: nella classicissima di primavera utilizzò da trampolino di lancio il Capo Berta. Bastarono cento metri su Fachleitner e Ortelli, in cima alla salita, per cominciare l’assolo; si presentò in via Roma, per il tris consecutivo, con oltre quattro minuti di vantaggio. Il Giro d’Italia, malgrado la corsa strepitosa di Adolfo Leoni, fu sorvolato con calma quasi olimpica da Coppi, che attese fino a poche tappe dall’epilogo per conquistare le insegne del primato. Lo fece con l’impresa più celebre del Novecento ciclistico, quella Cuneo-Pinerolo che rappresenta ancora oggi l’Aleph dell’immaginario di questo sport. Maddelena, Vars, Izoard, Monginevro e Sestriere…Affrontati in progressione, come fossero una prova contro il tempo infinita: 192 chilometri di fuga con gli avversari dispersi, Bartali (secondo) beccò quasi dodici minuti, e il pubblico di Pinerolo dribblato dal clamoroso anticipo sulla tabella di marcia del capitano della Bianchi.
L’esordio alla Grande Boucle, attesissimo, fu veramente complicato: la cotta, più psicologica che fisica, di Saint Malo alla quinta frazione divenne un argomento centrale nell’odissea del campionissimo.
I bartaliani, gli scettici, sostengono che se fosse stato intruppato in un’altra squadra, non nella nazionale diretta da Alfredo Binda, quel crollo nervoso l’avrebbe pagato con l’impossibilità di rientrare in classifica. Invece, a dispetto della mezz’ora di distacco, Coppi risalì la corrente mostrando una classe e una cilindrata senza eguali: vinse le due cronometro, il tappone italiano che si concludeva ad Aosta, quello del celeberrimo incidente di Bartali, e concluse a Parigi con quasi undici minuti sul rivale toscano. L’impresa, perchè tale fu, stabilì un nuovo standard nel ciclismo moderno: la doppietta Giro-Tour, fino a quel periodo considerata impossibile dal punto di vista fisiologico, diverrà il requisito statistico dei fuoriclasse di ogni epoca. Ironico che l’asticella fu posta in alto da un corridore considerato, a torto o a ragione, fragile dal punto di vista della tenuta psicofisica: appunto, un motore straordinario ma dalla carrozzeria e dalla centralina delicate. Uno scherzo della natura che stava dominando la scena come nessuno prima di lui; un bell’esempio fu rappresentato anche dalle prove del campionato italiano, ai tempi una competizione a punti assegnata dopo una serie di classiche del calendario tricolore. Perse da Leoni il solo Giro del Piemonte, una gara maledetta che non riuscì mai a vincere e che gli avrebbe regalato, nel 1951, il più grande dolore della sua vita (la morte del fratello Serse), ma spadroneggiò al Romagna e altrettanto avrebbe fatto in Veneto aggiudicandosi il titolo. Così, con queste premesse roboanti, si presentò a Copenaghen.
La situazione era chiarissima: Coppi contro il mondo e a caricare la sfida una serie di storie che lo circondavano.
L’anno prima Valkenburg rappresentò il punto più basso dello scontro con Bartali e si vollero evitare altre repliche non convocando Gino. Il percorso, ahilui, sembrava l’unico immaginabile per limitare il suo strapotere: piatto, privo di strappi, insignificante. Però il formato della competizione, allora con soli trentacinque partenti, garantiva che nessuna formazione potesse controllare la corsa. Infatti Coppi entrò in quasi tutti gli attacchi di giornata e, nel finale, riuscì a selezionare il plotoncino. Rimase con Rik Van Steenbergen e Ferdi Kubler, ovvero gli avversari meno graditi dal suo entourage…
Spieghiamo l’antefatto: il fenomeno che stava comandando il circo a due ruote aveva sponde importanti.
Tanti amici in gruppo, come sempre, e fuori. Zambrini, il patron della Bianchi, era influente e Andrè Mouton, il ras dei criterium e delle riunioni su pista, l’amico che lo rese ricco con gli ingaggi che si adeguavano alla fama crescente. Ma proprio la popolarità e le vittorie del campionissimo avevano allertato la concorrenza: in Francia il clan Mouton aveva monopolizzato i circuiti, decidendo le fortune economiche (e sportive) di molti. Van Steenbergen e Kubler erano però amministrati dal belga Van Boggenhout che impose ai due un mantra: un altro trionfo del piemontese avrebbe ridotto drasticamente i contratti dei suoi assistiti. Così il campione rossocrociato corse da gregario di Rik I; all’ultimo giro una sparata di Coppi fu rintuzzata proprio dallo zurighese che riportò sotto il fiammingo. La volata sul traguardo, dopo 290 chilometri, fu un gioco da ragazzi per il re dei velocisti: primo Van Steenbergen, al bis iridato (il tris sarebbe arrivato, sette anni dopo, ancora a Copenaghen); secondo Kubler e terzo Coppi, deluso. Dichiarò che gli sarebbe bastato un cavalcavia per risolvere la faccenda; celeberrima divenne la frase di Gianni Brera che sintetizzò quella giornata: “Le aquile non volano sulle aie.”
Ma il Fausto non ebbe tempo per i rimpianti e, a due dì di distanza, si presentò (attesissimo) ai mondiali su pista; specialità inseguimento individuale.
Nelle qualificazioni non fece fatica contro Ponehtal (raggiunto ai 2590 metri) e Piel; in semifinale battè Pedersen di cento metri. La finalissima, il 24 Agosto, opposto a Lucien Gillen fu più agevole: centosessanta metri di vantaggio e la seconda maglia arcobaleno dopo quella del 1947. Il Giro di Lombardia chiuse l’anno da favola del campionissimo. Era il 23 Ottobre, l’ultimo sigillo di una striscia vincente che era cominciata il 19 Marzo a Sanremo. Si presentò al Vigorelli con 2’52” su Kubler e gli altri, al termine del solito (?) volo pindarico. Calcolatrice alla mano, nel 1949 Coppi percorse davanti, in fughe solitarie e vincenti, 669 chilometri. Un dato tecnico e agonistico irreale.
La fase aurea del Coppi atomico si arrestò lungo le Scale di Primolano, al Giro dell’anno seguente, quando cadde (urtato da Peverelli) e si incrinò il bacino.
Fu una staffetta, un passaggio di consegne involontario, con il vincitore di quella corsa rosa, il primo forestiero in assoluto, ovvero Hugo Koblet. Il passista che più di ogni altro, per un paio di stagioni, si avvicinò alle performance strabilianti del campionissimo. Che ritornò se stesso nel 1952, l’anno del secondo double. Ma esistono parametri che possano confrontare quel Coppi con i corridori di oggi? Ni, nel senso che lo scenario è talmente cambiato da sconsigliare raffronti. Però i dati, finalmente rassicuranti, dei wattaggi sulle salite del Tour de France 2011 propongono un suggestivo parallelo. L’Alpe d’Huez di quest’anno, in una frazione (109 km) corta e micidiale, e la maratona (266 km) del 1952. Tra un Voeckler, disperato, in giallo (tempo di ascesa 44′ 33″) e il Coppi (45′ 22″) che staccò Robic ci sono apparentemente tutti i cinquantanove anni di distanza. Ma se ripensiamo al peso e ai rapporti di quelle biciclette, ai chilometraggi, all’alimentazione e alla

preparazione fachiresca, materializziamo il talento incredibile, mostruoso, di Fausto Coppi. In fondo, citando Tomasi di Lampedusa, tutto si modifica affinchè resti uguale: ma in questo caso, vivaddio, è il ciclismo che ci guadagna.

Simone Basso, 16 settembre 2011
(Articolo pubblicato sul Giornale del Popolo, www.gdp.ch/)

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