La parabola di Hot Plate

29 Novembre 2009 di Simone Basso

di Simone Basso
Lo rivedemmo su un canale spagnolo a scrocco, un po’ come quei fantasmi del passato che spuntano fuori a sorpresa: la sagoma inconfondibile, le movenze da panterone rallentate dalla ciccia in eccesso e le mani degne di un Horowitz della pallacanestro. Fu patetico, ma allo stesso tempo consolatorio, rivederlo su un parquet dopo tutti quegli anni; le promesse mai mantenute, lo Zander Hollander che gli predisse la Hall of Fame, e le delusioni accumulate durante una carriera cestistica che non tradusse in realtà le potenzialità clamorose. John Sam Williams nacque a South Central, il quartiere Zen di Los Angeles; luogo mitizzato dall’hip hop non certo per il clima da isola caraibica.
Specialità preferita della zona losangelina, oltre agli omicidi e ai Niggaz With Attitude di Compton che (de)generarono il gangsta rap, i giocatori di basket di altissimo livello: l’ultimo, Brandon Jennings, in una lista che comprende Marques Johnson e Baron Davis. John Sam, il soprannome The Rock se lo meritò nei playground del ghetto: le spalle da culturista, i piedi da ballerino di tango, doti fisiche straripanti e una visone di gioco incredibile, da predestinato. Willie West, pastore di anime della Crenshaw High School, ne raffinò le doti: i cinque ruoli del gioco, sciorinati con sapienza chirurgica dal giovane iperdotato, chiamarono ondate di osservatori universitari alle partite.
Qui si fece, ahinoi, la storia: mamma Williams, resasi conto del valore del figliolone, aprì un’asta per la firma del giovincello; un caso che costituirà un autentico modello di ispirazione per i reclutamenti Ncaa. L’appalto, truccato, lo vinse Lousiana State; il merito fu soprattutto della mediazione di un cinquantenne bianco, tale Stan Rothe, accompagnato da una fedina penale (quattro anni di galera, fra le altre cose) imbarazzante. Le scorazzate nel ghetto del neo LSU a bordo di fuoristrada costosissimi confermarono i metodi poco arcaici usati per convincere lui e la genitrice. Con i colori che furono dell’impareggiabile Pistol Pete giocò appena due stagioni, giusto il tempo di condurre i Tigers alle Final Four 1986.
Poi, inevitabile, arrivò la chiamata numero dodici dei Washington Bullets; quel draft fu la fine di un’illusione andata avanti anche fin troppo: l’utopia di atleti seri, maturi e pronti per la vita oltre che per il piede perno. Mai nella storia arrivarono tanti super così dannatamente ingestibili; il prologo tragico fu rappresentato dalla morte del favoloso Len Bias, 24 ore dopo la cerimonia, a causa di un mix letale di cocaina e crack; troppe prime scelte distrussero la propria carriera abusando di droghe pesanti (Chris Washburn e William Bedford su tutti) e non c’è bisogno di elencare i numeri da circo combinati da due rimbalzisti provenienti da Marte come il verme Rodman e Roy Tarpley.
Il nostro eroe da South Central, con quegli occhioni da bravocristo spaesato, si comportò bene malgrado le inevitabili difficoltà d’ambientamento: era una Nba dal profilo alto, l’espansione non ne mortificava ancora il livello medio. La Roccia emerse quindi dopo un anno di rodaggio, nel febbraio 1988, in coincidenza con il suo inserimento in quintetto base; quei Proiettili furono un combo pericoloso per chiunque, vantando All Star come il vecchio e glorioso Big Mo Malone, il cecchino Jeff Malone (una sentenza il suo tiro in sospensione) e Bernard King, il califfo più sottovalutato ogni epoca; offensivamente, all’apice, il meglio di sempre nel suo ruolo. Il ventunenne della costa ovest dialogò tecnicamente a meraviglia con il trio appena citato: mostrò una propensione gioiosa a ricoprire, di volta in volta, il ruolo più utile alla causa e si fece notare per la capacità di snocciolare la giocata decisiva all’ultimo secondo.
Per esempio, contro Phila una stoppata a Charles Barkley e opposto ai Bulls, sulla sirena, il canestro vincente. La miniserie al meglio delle cinque dei playoffs 1988, contro i Bad Boys di Detroit, fu emblematica delle capacità di Washington: portarono i futuri dinastici del Michigan alla bella, esibendo un gioco più brillante dei loro avversari. Carabina Jeff ridicolizzò la difesa arcigna dei Pistons e Re Bernardo offrì un saggio eloquente della sua classe; ma il perno dei capitolini fu la poliedricità dell’ex LSU. Aiutò nella tonnara dei rimbalzi il grande Moses e funse da playmaker ombra; solo un metro arbitrale casalingo, che consentì a Laimbeer e soci di picchiare come fabbri, permise la vittoria della banda Daly nella violentissima gara5. Le dimostrazioni di quel combo non bastaronò alla dirigenza per la riconferma del Malone re dei tabelloni e i Bullets cominciarono a riformulare il progetto: attorno a Williams, King e (Jeff) Malone, una banda di prospetti talvolta improbabili; tra i quali merita una citazione Ledell Eackles, swingman alla Sugar Robinson ma con la circonferenza vita degna di un Giuliano Ferrara
Il nuovo allenatore, il leggendario Wes Unseld, si innamorò del californiano e lo impiegò in ogni ruolo disponibile; dal play al centro, senza soluzione di continuità. Il 1990 sembrò rappresentare l’anno della sua consacrazione: il 34, definitivamente sbocciato, parve la pietra angolare della franchigia. La consueta polivalenza, abbinata alla tecnica sopraffina nell’uno contro uno; il soffice piazzato dai cinque metri, le conclusioni sotto canestro da ambidestro e il dono geniale per il passaggio smarcante. Il tutto confezionato senza il minimo sforzo apparente, 206 centimetri di poesia libera in movimento. Poi, ad un passo dal suo primo probabile All Star Game, il ginocchio destro si lesionò e la carriera del presunto Larry Bird nero imboccò una discesa folle, degna della Streif di Kitzbuhel: J.S. Wil, al camp prestagionale estivo 1990, si presentò trasformato…Infatti, come un supereroe al contrario, The Rock divenne Hot Plate.
Minacciosamente sui 150 chili, il suo amore per il pollo fritto, le costolette di maiale e la birra fecero sparire dietro una montagna di grasso il talento bulimico (!) del nostro e (di conseguenza) il giocatore chiave dei Proiettili. L’inattività forzata esaltò, ahilui, la fame atavica della perla di Crenshaw; che bissando ogni porzione abiurò tranquillamente la prospettiva di una carriera stellare nell’Nba: il rientro tragicomico avvenne nel Febbraio 1991; allo spaventoso atleta di LSU si era sostituito un curioso lottatore di sumo, incapace di librarsi in aria come ai bei giorni. Malgrado tutto ciò, la classe era inalterata e, in un team in totale ammutinamento, sfiorò i venti ad alzata nell’ultimo mese e mezzo (…).
La sospensione per l’intera annata 1992, a causa del tonnellaggio eccessivo, mise i titoli di coda del suo rapporto con i poveri Proiettili ed in pratica sancì la fine “sentimentale” del suo impegno in Sternville. Dopo i celeberrimi moti di rivolta a El Ei, il cui epicentro fu proprio nel quartiere del nostro eroe, si ricordò di lui solamente Larry Brown. Fu l’ex North Carolina a regalargli gli ultimi tre anni di militanza Nba: prima dei Pacers, un biennio a casa con i Clippers, in un’edizione (quella del 1993) assolutamente irresistibile per i mutanti coinvolti nell’operazione: oltre a Williams, Danny Manning, Ron Harper, Mark Jackson, Stanlio Roberts, Snake Norman, Molester Conner. Più che una semplice squadra di pallacanestro, un culto pagano amministrato dall’allenatore più geniale di tutti.
Poi, per un lungo periodo, sembrò destinato inevitabilmente al

divano di casa; ma la sua versione di successo, ovvero Magic Johnson, lo chiamò per un tour di vecchie glorie. Riuscì a ripresentarsi in una forma accettabile (magrolino all’osso fece spostare l’ago della bilancia sui 130..) e affascinò amatori iberici dell’Acb: l’epilogo divertito fu in Spagna, vestendo quattro casacche diverse e ammorbando platea e compagni con il suo basket genialoide. Quando MC Williams saliva in cattedra, a dispetto della pancia e della mobilità laterale relativa, squarciava l’area pitturata con i suoi palloni al laser. L’immagine sbiadita ma orgogliosa di ciò che avrebbe potuto essere ma non è stato, John Allen spagnolo suo malgrado: la parabola inimitabile di Piatto Caldo, il fuoriclasse imprigionato in un corpo deformato dall’appetito insaziabile, sta tutta qui.
Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto, i soliti copincollatori sono pregati di citare almeno la fonte)

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