La forza tranquilla di Cadel Evans

23 Aprile 2010 di Simone Basso

di Simone Basso
Il fascino dell’insalata russa, l’irripetibile epopea di Federer-Nadal, le classiche da replicare, Malabrocca a teatro, Mavs-Spurs da anni Ottanta e il ventennio di Samaranch.
1. Avete presente l’insalata russa ai rinfreschi delle inaugurazioni? Le evoluzioni dei bipedi attorno ai tavoli imbanditi potrebbero fornire Treccani di antropologia umana: l’assalto al cibo di alcuni affamati, lo spuntino scettico degli sfamati e i resti sconci della guerriglia alimentare in tarda serata. La rimanenza, con quel colore porpora molto ambiguo, ha il contorno amichevole di una ciurma di mosche insaziabili. La visione dell’insieme ha un fascino Fassbinder che descrivere non sapremmo: eccovi dunque una mista dei pasti avanzati della settimana.
2. La vittoria di Nadalito è l’unica notizia positiva, in prospettiva Roland Garros, del torneo di Ranieriville: sull’Atp, dal post Australia in poi, spira una noia sartriana; colpa anche di una consapevolezza già acquisita in fase razionale, ma respinta nel subconscio dagli aficionados. Il federerismo, l’impero di Adriano trasportato sui campi da tennis, è alle ultime puntate di un’epica già irripetibile. Lo psicodramma è prospettico, alle spalle di Mago Merlino e della sua nemesi maiorchina: non si intravedono attori di talento certificato, capaci di sostituire degnamente l’imperatore elvetico e il golpista spagnolo. Si raccolgono i frutti appassiti di Robosport, ovvero un’impostazione tecnica stereotipata (moriremo tutti demobimani?) e la conseguente standardizzazione dello stile di gioco.
L’atletica leggera con racchetta non permette più scarti improvvisi e fantasiosi, costringe la manovalanza a una disciplina muscolare (e farmaceutica) depauperante. Il risultato di questo bestiario sono il cyber tennis e gli infortuni fantozziani: la sciatalgia di Verdasco, il polso di Davydenko e di Del Potro (tra l’altro, quest’ultimo, l’unica vera alternativa al duopolio), il cervello di Murray e l’oblomovite di Djokovic… Vorremmo tanto sorprenderci osservando un giovane virgulto, essere (s)travolti dall’imprevisto di un bambino che uccida senza pietà, come il Rimbaud diciottenne. Non pretendiamo un Boris Becker, l’ubermensch infante che mangiò (in un sol boccone) il Queen’s e Wimbledon nell’estate indimenticabile dell’85. Nemmeno il Wilander 1982, la resurrezione svedese che conquistò Parigi; ci accontenteremmo dell’Aaron Krickstein che (a sedici anni!!) arrivò in finale al Foro Italico nell’anno orwelliano. Per evitare, guardando i primi turni del Mille capitolino, di slogarci la mascella dagli sbadigli.
3. Caro vecchio ciclismo delle classiche, potessimo replicarlo ogni mese come fossimo a teatro: il 2010 è stato eccezionale nella sua ovvietà rassicurante. Vincono solo i campioni, i fuoriclasse alla Rembrandt, e lo fanno mostrando il meglio del loro repertorio. L’agguato felino di Oscarito al festival sanremese, la settimana santa monopolizzata dal dittatore svizzero (l’altro), la fucilata sul Cauberg di Filippo il Bello e l’altroieri, salendo l’erta di Huy, la forza tranquilla di Cadello Evani da Stabio. Gomito a gomito col torero Contador, manco fossimo tornati indietro di decenni, quando i tappisti se la giocavano con i classicomani anche ad Aprile. Domenica la Decana sancirà il passaggio del testimone: la Liegi-Bastogne-Liegi, Yalta degli sfregaselle, ultimo appuntamento romantico prima delle grandi corse a tappe. Irrinunciabili quasi quanto la prossima inchiesta d****g che arriverà tra breve: siamo quasi contenti, avendo compreso le dinamiche divine che smuovono lo sport, di questi scandali prefabbricati, segnali evidenti della biodiversità della bici rispetto al resto dell’agone professionistico. Consci che la pattumiera esibita sia molto più dignitosa dei termovalorizzatori nascosti (e militarizzati) degli altri.
4. Segnalazione dovuta a “Malabrocca al Giro d’Italia”, spettacolo teatrale scritto, diretto e interpretato da Alberto Barbi. Ci si augura che questa piece, dalla vena brechtiana, possa girare tutto lo Stivale per rivelare a sempre più persone, ignare, le caratteristiche uniche di questo mestiere atavico. Niente enfasi precotta, solo la strada e la vita: quella di un tortonese che divenne ciclista per fuggire dalla malora dei contadini. Le prime corse, l’incontro col Dardela (un certo Fausto Coppi) e la vocazione mercenaria alla maglia nera. Luisin, atleta di buonissimo livello (fu anche tricolore nel ciclocross), contrapposto a quel paracarro ambulante di Carollo, l’avversario di quella corsa al negativo. In palio 70.000 lire dell’epoca, un bel gruzzolo da portare alla Ninfa (la donna della sua vita), e l’amore incondizionato di un’Italia che sapeva ancora schierarsi con i più deboli. Storie di umanità, tipo un Giro di Jugoslavia vinto anche da contrabbandiere, che si incrociano con la storia dei libri: la povertà atavica, la guerra, le brigate partigiane; il Giro verso Trieste “accolto” dagli spari dei titini, De Gasperi, Togliatti e Bartali.
Una rappresentazione pulita, asciutta, priva di fronzoli e che mira al nocciolo della questione; ovvero, la percezione che la nostra esistenza sia quella cosa che imita benissimo una corsa ciclistica.
5. Un appello a chiunque possa sciropparsi i playoffs Nba, sette serie più un film di Eric Von Stroheim: il derby del Texas, Cubani contro Popovici, è roba da cineteca. Almeno fino a quando le gambe degli Speroni reggeranno l’intensità sovraumana della battaglia; trattasi di un gioco al meglio della sua contemporaneità, una sfida degna delle Classiche degli Ottanta. L’attacco be bop di Dallas contrapposto alla disciplina militare difensiva di San Antonio, l’incrocio esaltante di fuoriclasse che hanno segnato questi anni di basket: il Nowitzki di Gara1 sembrava la reincarnazione di Larry Bird; il Duncan della seconda puntata ci ha ricordato che, nei big men, il caraibico ha come solo paragone storico (emotivo e tecnico) Kareem Abdul Jabbar. L’ennesima recita del tenore Ginobili, l’intensità moncriefiana di Butler; i traccianti del quarterback Kidd e le accellerazioni da scooter di Tony Longoria. Abbiamo un’idea di come potrebbe finire ma stavolta ci interessa pochissimo: ci basta quel climax wagneriano per perderci nella bellezza dell’Nba più autentica.
6. Che sia lieve la terra a Juan Antonio Samaranch, il caudillo che risollevò le fortune economiche del Cio: i coccodrilli lacrimosi dei media istituzionali e le parole di cordoglio di Petrucci sono un’opinione di parte sul personaggio, altrimenti definibile ambiguo e controverso. Un equilibrista di rara omniscenza: franchista, catalano, manager di se stesso, diplomatico; il suo ventennio olimpico è stata un’accelerazione clamorosa verso la monetizzazione totale dello sport. Federale di indubbio talento trasformistico, ha veramente portato avanti l’ideale decoubertiano delle origini: al contrario dell’ingenua vulgata, il barone comprese infatti la ricchezza del brand sportivo creato (?).  Ideò un sistema per vendere meglio l’estetica potentissima creata dagli atleti; magari per una montagna di soldi gestiti esclusivamente da una casta nobiliare. Allora, in un rigurgito infantile di Cattivik, ricorderemo come indimenticabili alcuni carteggi che spuntarono fuori dalle corrispondenze (amorose?) tra il comitato organizzatore di Salt Lake City e alcuni membri (evvai..) del Comitato Olimpico. La scheda tecnica sull’utilizzazione delle peripatetiche fu ‘na meraviglia mai più ripetuta: altro che spirito a cinque cerchi…Ifix tchen tchen!!
Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)

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