Il ciclista cosmico

2 Luglio 2010 di Simone Basso

di Simone Basso
Introduzione bizzarra al Tour de France 2010, dedicata al prigioniero politico più divertito della storia dello sport; un Solzenicyn che viaggia in Porsche. Non sopportando più le analisi delle tappe e le liste dei protagonisti, consigliamo il fai da te per l’edizione numero novantasette che partirà da Rotterdam: avendo osservato cose assurde, tipo L’Alpe d’Huez al Delfinato percorsa con i tempi degli anni Ottanta, dedichiamo un omaggio a un’era farmacologicamente imbattibile, vergando l’apologia del più grande talento di quell’epopea shakespeariana, bellissima e tragica. Jan Ullrich, i Novanta, Epolandia e tante altre storielle.

“Non sono stato un bambino voluto.
Non suona romantico ma è la verità.

Il ciclista cosmico (nel senso più cyberpunk del termine) atterrò nel Dicembre 1973 a Rostock, cittadina della Ddr baciata dal mare ma che nemmeno dopo litri di Barbera scambiereste per Porto Cervo o Antibes. Nel curriculum familiare un padre che fuggì all’istante dalle responsabilità domestiche e mamma Marianne che, per mandare avanti la baracca con quattro figli, si arrampicò sugli specchi; tentò inutilmente di stancare la giovane peste dai capelli rossi iscrivendolo, per scherzo, al club della città. L’odissea del nembo kid tedesco cominciò così e la prima corsa, all’eta di nove anni, non riuscì nemmeno a concluderla: il circuito di pochi chilometri, da ripetere un tot di volte, non prevedeva che Giovannino doppiasse tutti i concorrenti prima della conclusione… Entrò subito nella scuola dello sport berlinese e, tra una marachella e l’altra, fece man bassa di gare in una Germania Est prossima alla dissoluzione politica.
Un asterisco doveroso per sottolineare alcune idiosincrasie che ci rimasero sullo stomaco anni fa:
ricordiamo un bellissimo speciale televisto nel dì del trionfo assoluto (naturalmente il Tour 1997) e, nelle immagini di archivio, le strutture fatiscenti, le maglie di lana e quel senso di inarrestabile decadenza comunicato dalle circostanze. Quella Repubblica Democratica, mentre la futura maglia gialla spiava le meraviglie della Grande Boucle 1989 catodizzata dalla Rft consumistica (Fignon, Lemond, Delgado e gli altri), arrivò quasi in poltiglia alla caduta del muro. Dalle nostre parti si è sempre voluto far passare questo vitellone della pedivella (e della forchetta) per un mostro da laboratorio programmato come Terminator. Magari per contrapporlo bello disumanizzato alla fantasia dell’eroico Pirata, tanto per stilare una lista dei buoni (i nostri) e dei cattivi (gli altri). Lo fecero utilizzando un farmaco potentissimo, l’ipocrisia, che procurava amnesie improvvise sulle processioni infinite di atleti occidentali verso i santuari di San Conconi e Santa Padilla o magari, scrivendo di Ulle, al monastero di Fra’ Cecchini.
Tornando alle vicende ullrichiane ci sovviene il sole di quel pomeriggio norvegese ad Oslo (1993), quando si fasciò il busto con l’iride degli allora dilettanti; a nemmeno vent’anni fu l’inizio di una stagione di razzìe in mezzo mondo.
Il principe dei Varni lo sperimentarono anche gli azzurrini, al Giro della Bassa Sassonia del 1994: vinse tre tappe scherzando il gruppo, compresa una fuga tutto il dì sotto l’acqua e una frazione in volata risalendo, a mille metri dal traguardo, dall’ultima posizione di un plotoncino allungatissimo. Un fenomeno. Prima di compiere i ventuno, contratto Telekom già in tasca, si schierò con i pro al cronomondiale siciliano e finì terzo, lasciando esterefatti un po’ tutti. Il terrorizzante esordio al Tour 1996 ebbe la vernice di un anno da matricola turbolento, con il giovane ubermensch impegnato a collezionare multe per le più disparate infrazioni automobilistiche e con lo strato adiposo della pancia in crescita preoccupante. Ma quel presagio fu spazzato via da una Festa di Luglio eccezionale, nella quale il nostro mostro (correndo all’aria come un gregario qualunque) rischiò di impallinare il capitano designato Rijs. Nell’ultima crono fece capire che se il danese non fosse stato sulla stessa scialuppa, il giallo sui Campi Elisi il buon Bjarne non l’avrebbe indossato.
Si prenotò dunque per il ’97 e al Tour de Suisse, osservandolo demolire verso Kandersteg Bartoli e Garzelli di solo rapporto, mandò un sms ai boss della squadra, Godefroot e Pevenage; sul Tourmalet, in pieno Tour, sembrava pedalare con il Gruber Assist tanto era lo stato di grazia.
Il dì dopo, arrivando ad Andorra Arcalis al termine di una maratona di 253 chilometri, immolò Pantani e Virenque con una progressione entusiasmante: dando i numeri, l’esercizio perfetto per l’evo di quel periodo folle, Jan fece registrare una potenza media (su quella salita) di 475 watt. Trattasi dello zenith assoluto di un’epo-ca, in quelle condizioni l’assoluto futuristico (l’uomo macchina, la carne e il titanio) realizzato su una vetta pirenaica.
Il seguito fu una supercrono a Saint Etienne, bastonando la concorrenza con lo sguardo del prossimo dittatore, e la Woodstock degli sfregaselle sull’Alpe: quel giorno eravamo in quattrocentomila sui ventuno tornanti e fu il momento di massima popolarità globale del circo ciclistico. Prima passò Marco, poi Jan, dopo Richard, Laurent e tutta la ciurma spalmata sulla strada; in mezzo a un budello di indiani seminudi e vocianti, la convinzione che avremmo fottuto il foot e gli altri sport per signorine. Lassù c’era l’Onu nella sua versione carnevalesca: europei, americani, britannici, australiani, sudamericani; una passione debordante, selvaggia, priva del Grande Fratello che pare incombere sugli altri eventi, quelli da biglietto obbligatorio.
Gestì con inesperienza incosciente gli assalti dei Festina; prossimi all’approdo di Courchevel, dopo una battaglia tremenda, fu semileggendaria la sua risposta a un Virenque che supplicò il lasciapassare
per una volata senza sorprese: con un gesto inequivocabile, in mondovisione, chiese una ricompensa in carta moneta. Minnie, Topolino e Ciofanni in posa a Disneyland; il pianto a dirotto sull’Avenue des Champs-Elysées e la sensazione che sarebbe cominciata un’era: vederlo massacrare la plebe in agosto a Buhl, in una classica crucca dalle difficoltà altimetriche notevoli, confermò l’erronea convinzione.
Poi naturalmente cominciò l’inverno dei quindici chili in più,
in mezzo ad un’esplosione incontrollabile di fame atavica, premi, feste e apparizioni televisive: un disastro. Che ebbe l’apice nel funereo Tour de France 1998 a Les Deux Alpes, quando intirizzito dalla pioggia e spaventatissimo consegnò la corsa all’arrembante Pantani. Gli insulti sulla strada di cretini organizzati, un bacio sulla guancia a Bolts, la reazione orgogliosa del giorno dopo sulla Madeleine e un abbonamento ufficiale al ruolo di Belloni di fine millennio: fu il bottino deludente di un’annata in cui cominciò ufficiosamente il declino di Epolandia. Se poi pensate che il caso Festina e l’Operacion Puerto siano state normali operazioni di pulizia etica siete ingenui o stupidi; già il fatto che il bubbone sia scoppiato sempre in coincidenza con le Blatteriadi organizzate nel Vecchio Continente (1998 e 2006) dovrebbe farvi capire la portata di quei coup d’état. Si colpisce per educare e soprattutto per arrecare un bel danno di immagine alla concorrenza sfortunata: la bomba, nelle metodologie che gli italiani hanno sperimentato per decenni, serve per distrarre la folla guardona…
Il 1999 ebbe un incipit, con una caduta rovinosa al Giro di Germania, disastroso; la conseguente operazione chirurgica al ginocchio sembrò già suggerire i titoli di coda del suo anno agonistico.
Si

verificò invece un exploit stupefacente e inaspettato quando, dopo un mese di stop forzato e sette corse di preparazione (?), si schierò alla Vuelta di Spagna. I tre-quattro chili di grasso superfluo li bruciò grazie alla canicola della prima settimana, Golem teutonico ad energia solare, il resto lo produsse la sua cilindrata da Formula Uno; opposto a una concorrenza tirata a lucido, si impose allo sprint nel primo tappone di montagna e improvvisò (senza squadra) una scalata ai primissimi posti della classifica. Nello stupore generale prese l’amarillo ad Arcalis (un dolce deja vu) e difese il primato dagli assalti dei padroni di casa. Quel Giro di Picassolandia ebbe il privilegio di mostrare il talento del kid della Dynamo Rostock e del povero Frank Vdb, l’artista vallone che ci ha lasciati poco tempo fa.
L’ultima prova contro il tempo fu ammorbante, sintomo di capacità atletiche assurde, quasi inspiegabili: andando verso le magnifiche mura di Avila, il Trans Europe Express travolse Igor Gonzales de Galdeano dopo diciannove chilometri, sorpassò Chava Jimenez sul falsopiano e arrivò a cento metri da Bobby Heras.
Il resto fu la cronaca di un delirio annunciato, Rosso Malpelo fotocopiò le sue stagioni fino alla positività per ecstasy (quel che si dice un controllo mirato..) nel 2002 horribilis e al licenziamento della Telekom:
il solito Dicembre ipercalorico, un bel faccione da Oktoberfest alla foto di gruppo della presentazione e una rincorsa tardiva alla Grande Boucle, ostaggio della nemesi texana che nel frattempo si era materializzata sulla sua strada. Armstrong rappresentò perfettamente l’antitesi di Ullrich: l’approccio professionale, ossessivo e pignolo, si tradusse in una macchina da Tour spietata, perfetta. Lance però non fu mai realmente meglio dello Jan d.o.c.; quello che, respinto in Francia dal robot a stellestrisce, regalò l’essenza merckxiana, sconquassante, di questo sport apocalittico. Così, da Agosto in poi, assistemmo talvolta allo scatenarsi di un fenomeno della natura, inarrestabile: a Sydney (2000) trasformò un percorso insignificante in una Liegi-Bastogne-Liegi olimpica; fece tre allunghi spezzagambe, lasciando sul posto Jalabert, Bettini, Bartoli, Konyshev. Anche Braccioforte, che mulinava vorticosamente il suo rapportino da mountain bike, vide La Verità wagneriana (vestita di bianco e blu) andare in fuga.
Fu così altre volte, per colleghi sorpresi da quella potenza spaventosa, sprigionata dalle gambe di un Edwin Moses nordico:
un anno all’Emilia affrontò il San Luca con il cinquantatre, con gli avversari Casagrande e Rebellin sbigottiti, e svuotati, di fronte alla dimostrazione di forza. Le leggende sulle sue monellate lo accompagnarono almeno quanto le imprese atletiche: potremmo riempire questa bio bonsai con dozzine di aneddoti. Nel tentativo semidisperato del Team di controllare gli eccessi alimentari prima del Tour, nel 2001 esordì al Giro; uno dei primi giorni, in una hall dell’albergo che ospitava diverse squadre, l’Ullrich fu notato per mezz’ora risalire e scendere con l’ascensore di servizio. Il mistero del suo atteggiamento fu chiarito dal suo incontro con il Cecco Casagrande, classico sfregaselle al limite dell’anoressia per controllare il peso: Jan estrasse una megatavoletta di cioccolato bianco dalla giacca della tuta sociale e ne offrì un pò al collega perplesso… La sera del Mondiale di Lisbona, l’ennesimo arcobaleno mancato, venne notato in un locale lusitano da alcuni giornalisti: vestito come Tony Manero, partecipò divertito a una fiesta karaoke. “Ma quello è Ullrich?”. Ad un certo punto, con la classica pinta di birra sul tavolo, approcciò una cameriera corpoduro con una sberla sul deretano. La signorina, preda soddisfatta, sorrise. Nel bel mezzo del trambusto Ulle prelevò un cubano dal taschino e si mise a fumare. “Hiiighwaay to hell!”.
Il rientro dopo l’esilio forzato, nel 2003, fu memorabile: ebbe pure la sventura di intrupparsi nella Coast insolvente a causa di problemi finanziari. I corridori, incredibile ma vero, pagarono con un mese di assenza dalle competizioni; malgrado tutto, un Giovannino determinatissimo improvvisò una Grande Boucle favolosa. Fasciato del celeste nostalgico Bianchi, il Venturelli tedesco fu il vincitore morale di quelle tre settimane incredibili: il Centenario, oltre che con un atteggiamento benevolo della Gendarmeria, fu festeggiato da una sfida tra Blade Runner. Il coraggio di Hamilton, le ossa spappolate di Beloki; gli attacchi dei baschi e l’impeto di Vino. Ma soprattutto Lance versus Jan, che perse quaranta secondi fondamentali nella cronosquadre e fece le Alpi con la febbre; la crono nel solleone di Cap Décoverte fu maestosa ed emblematica: il texano in giallo fu umiliato dalla motocicletta di Rostock. Perse non attaccando il postino caduto, gesto meraviglioso ma disdicevole, e concluse le speranze residue ruzzolando sull’asfalto bagnato di Nantes. Al traguardo, malgrado l’ingiustizia di quella sconfitta, fu il solito Ulle: “Mentre scivolavo ero bellissimo: sembravo Katarina Witt..”.
Due anni e mezzo di “potrei ma non voglio”, tornato nel nido T-Mobile, e l’occasione del bis parigino che andò a farsi fottere per la deflagrazione dell’Operacion Puerto.
Il ratto del 2006 travolse principalmente Kaiser Jan, vittima sacrificale di un sistema che scelse un bel nome da dare in pasto agli avvoltoi e salvò le apparenze; Giovannino, il superdotato che capitò in pieno Robosport, ebbe solo la colpa di adeguarsi al così fan tutti dell’ambiente pro. Furono vomitevoli i media tedeschi, gli stessi che ne avevano fatto un eroe nazionale, a trattarlo come un lebbroso; lui e il suo sport, dopo la scoperta dell’acqua calda, furono messi all’indice. Torquemada con gli sfregaselle, tre scimmiette verso le Blatteriadi del nein agli ispettori Wada; una certezza del bestiame contemporaneo: forti con i deboli, deboli con i forti.
Però nessuna televisione ha restituito i soldi, le camionate di milioni, ricevuti in pubblicità trasmettendo le vittorie dell’ossie reietto.
Se nasci Jan Ullrich, e sai di essere meglio degli altri spingendo sui pedali, non seppellirai mai il tuo progetto bambino, sui quali hai sudato un’intera giovinezza, per un principio anche sacrosanto. Come scrisse su uno dei bigliettini di addio, l’avversario che lo spodestò quel pomeriggio sul Galibier tempestoso: “Ma andate a vedere cos’è un ciclista e quanti uomini vanno in mezzo alla torrida tristezza per cercare di ritornare con quei sogni.” Gli Hans Schnier in circolazione sono pochissimi e non appartengono alla società dello spettacolo odierna; i pagliacci invece sono la maggioranza rumorosa e purtroppo non indossano quello straordinario naso rosso che darebbe loro la dignità perduta.
Il 19 Marzo di quest’anno non si è dato molto rilievo all’archiviazione del caso Ullrich: per la Federazione Svizzera, dopo quattro anni, nessuna accusa è stata provata.
Il corridore, da qualsiasi parte la si esamini, fu vittima di un’ingiustizia palese e alcuni soloni dell’Uci, con il codice Morse usato in questi casi, hanno rilanciato con le solite minacce. Ma Ulle, anche se potrebbe chiedere risarcimenti sanguinosi per le casseforti dei Federali, non pensiamo abbia ancora in mente il suo passato agonistico; non avendo bisogno di questi signori, con la dote accumulata in un decennio, se ne strafrega. E’ sempre lo stesso Gianburrasca che, mentre il maestro Peter Becker fingeva di distrarsi, bramava di comperarsi quelle Nike coloratissime dall’altra parte del Muro. Il cicloturista obeso che nel 1998 si staccava sui cavalcavia del Giro d’Aragona e l’Imperatore accolto a Bonn, l’anno prima, da cinquantamila persone in delirio. Il ragazzone sul palco del Trittico Lombardo che rimase trenta minuti a firmare autografi e a posare per una foto ricordo dicendo a tutti “krazie”, manco fosse il professore Kranz di Paolo Villaggio. La bestia che, tirando il treno Telekom per lo sprint di Zabel alla Quattro Giorni di Dunkerque 1996, fece domandare a un Peter De Clerq col fiatone (rivolto verso l’ammiraglia di Godefroot):
“Ma dove avete preso quell’energumeno?”. Epilogo dolceamaro della vicenda, riassunto dalle parole sagge di un suo antico massaggiatore: “Feci le iniezioni di epo al Tour ’97, con quelle lo aiutai a vincere…Ma sono sicuro che in un mondo perfetto, senza doping, ne avrebbe vinti dieci”. E così sia.
Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)

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