Fausto Pizzi: il mio calcio da Fraizzoli a Zhang

14 Aprile 2021 di Gianluca Casiraghi

Una Coppa Uefa e uno scudetto sfiorato sono il palmares di Fausto Pizzi con l’Inter dopo aver fatto tutto il percorso nelle giovanili, dai Pulcini a 8 anni sino alla Primavera, con la ciliegina sulla torta del successo nel torneo di Viareggio. Entrato nel club nerazzurro ai tempi di Fraizzoli, curiosamente da allenatore Pizzi ha allenato anche le giovanili dello Jiangsu Suning, il club ora defunto degli Zhang. Ma tornando al Pizzi giocatore, indimenticabile trequartista in un’epoca in cui questo ruolo era poco amato dagli allenatori, in pochi sanno che Pizzi sarebbe potuto essere un prodotto del vivaio del Milan e non dell’Inter. Inizia da questa curiosità la nostra intervista con lui.

Come è avvenuta la scelta fra Inter e Milan?

«La mia prima squadra è stata la Rondò Dinamo di Sesto San Giovanni, il paese in cui sono cresciuto anche se sono nato a Rho. Avevo sette anni e io classe 1967 dovevo giocare con i ragazzi del 1965, perché ovviamente ai tempi non esistevano Piccoli amici e Primi calci, le attuali categorie al di sotto dei Pulcini. Alla fine della stagione è arrivata a casa una cartolina del Milan che organizzava partite per provare i bambini più promettenti delle società della provincia, cosa usuale per le società professionistiche negli anni Settanta. Sul campo della Macallesi in viale Ungheria abbiamo sfidato i Pulcini del Milan e nel primo tempo eravamo tre a zero per noi con tre gol miei. Mi tolsero e dissero a mio papà che avevo superato il provino e avrei giocato nel Milan».

Allora come mai invece che a Milanello sei finito ad Appiano Gentile?

«Subito mio papà è andato in società a comunicare ai dirigenti della Rondò Dinamo che ero stato scelto dal Milan e loro gli risposero che non potevo andare al Milan. Mio padre si stava già arrabbiando quando gli dissero che ero stato venduto a ll’Inter, con cui la Rondò Dinamo aveva un rapporto di collaborazione».

Dieci anni in nerazzurro, senza però la gioia dell’esordio in campionato o nelle Coppe a San Siro o in trasferta.

«In realtà in quegli anni ho collezionato oltre un centinaio di partite giocate a San Siro, come molti si ricorderanno negli anni Ottanta e fino a non molti anni fa prima delle gare di Serie A allo stadio Meazza si disputava una partita tra una formazione giovanile dell’Inter e una squadra di una società della città e della provincia, e io di quelle sfide ne ho vissute molte. Poi nelle stagioni 84/85 e 85/86 ho cominciato a respirare l’aria della Prima squadra con allenatore Ilario Castagner e ho al mio attivo molte panchine tra A, Coppa Uefa e Coppa Italia. La partita che ricordo meglio è stata la semifinale di Coppa Uefa nella primavera del 1986 vinta 3-1 con il Real Madrid con una splendida doppietta di Marco Tardelli: non avevo mai visto lo stadio così pieno, una atmosfera irripetibile».

Sei deluso di aver dovuto attendere il 1990 per esordire in Serie A con la tua Inter?

«No, perché comunque a 17, 18 anni potevo allenarmi e ammirare da vicino dei veri campioni come Rummenigge, Altobelli, Brady e Beccalossi, solo per citarne alcuni».

E come si faceva in quelli anni, il giovane Pizzi va a farsi le ossa in provincia tra Centese, Vicenza e Parma.

«Esperienze fondamentali che mancano ai ragazzi d’oggi, la famosa ‘gavetta’. Proprio quella si faceva, sputando sangue per diventare un calciatore professionista. Sono cresciuto tantissimo, prima in C con Centese e Vicenza: con i biancorossi ho vinto il titolo di capocannoniere e il premio di miglior giovane del Guerin Sportivo. E poi in B con il Parma, con cui ho vinto il primo campionato tra i grandi della mia carriera, cosa che mi ha permesso di tornare a casa all’Inter e, questa volta, di giocare sia in serie A sia nelle varie Coppe».

Stagione 1990/1991, double Scudetto-Coppa Uefa sfiorato.

«Era una grandissima Inter, reduce dallo scudetto dei record, piena di nazionali e con il trio dei panzer tedeschi Matthaus-Brehme-Klinsmann, soprattutto con il Matthaus all’apice della sua carriera. In  campionato ci fu la sfida con la Sampdoria di Vialli e Mancini e lo scudetto si decise per degli episodi, come quasi sempre accade. Nella sfida del girone di ritorno a Milano avevamo tre punti di ritardo e vincendo avremmo riaperto il discorso scudetto; fu una partita piena di emozioni. Fu annullato un gol, probabilmente, regolare a Klinsmann, Dossena portò in vantaggio la Samp, Pagliuca parò un rigore a Matthaus e Vialli chiuse i conti con la rete del 2-0. Invece, in Coppa Uefa non ci furono ostacoli e battemmo la Roma nella doppia finale. Il mio primo trofeo e che trofeo».

La stagione successiva non andò allo stesso modo, dopo il cambio in panchina tra Giovanni Trapattoni che tornava alla Juventus e l’arrivo di uno degli allenatori-profeti degli anni Ottanta-Novanta, Corrado Orrico.

«Non ci siamo ripetuti: a metà stagione fu esonerato Orrico e in panchina arrivò Luis Suarez, con cui non ci fu il cambio di passo».

Domanda quasi scontata: ti sei trovato meglio con Trapattoni o con Orrico?

«Chiaramente sono due tecnici agli antipodi, ma mi sono trovato bene con entrambi. A Trapattoni non potevi non volergli bene, era un grande motivatore ed era bravissimo con noi giovani: tanto dialogo, ci spronava e ci faceva fare allenamenti specifici per farci migliorare. Orrico portava idee nuove come aveva fatto Sacchi alcuni anni prima nel Milan, purtroppo quella Inter non aveva molti giocatori adatti ai suoi sistemi».

Finisce la tua seconda esperienza nerazzurra e comincia la tua seconda volta al Parma. «Con l’Inter siamo andati in tournée in Canada e in ogni hotel in cui alloggiavamo trovavo il direttore sportivo del Parma Giambattista Pastorello o, se non era lì fisicamente, mi chiamava al telefono in camera. Un corteggiamento in piena regola che mi ha convinto a tornare a vestire la maglia gialloblù».

Stagione 1992/1993 e per te c’è il secondo trionfo europeo, il primo nella storia del Parma, la Coppa delle Coppe alzata nel mitico stadio di Wembley dopo il 3-1 rifilato ai belgi dell’Anversa. Fausto Pizzi uomo da notti europee, uno Zibì Boniek anni Novanta.

«Be’, l’accostamento a un campionissimo come il polacco mi lusinga. Effettivamente vincere due coppe europee in tre stagioni non è da tutti ed è una cosa che mi tengo stretta».

Coppa Uefa con l’Inter, Coppa delle Coppe con il Parma: ti manca non essere riuscito a vincere anche uno Scudetto?

«No, allora potrei dirti che non ho in bacheca nemmeno la Coppa Campioni e non ho avuto la gioia di giocare in Nazionale. Due trofei europei, due campionati di Serie B, e alcuni riconoscimenti personali come il titolo di capocannoniere e miglior giovane della Serie C sono un ottimo palmares, sono contento di quello che ho ottenuto giocando a calcio, non ho rimpianti».

Una carriera ancora lunga per te, ancora Serie A con Udinese, Napoli e Perugia, cinque stagioni in B con Genoa, Cremonese, Treviso e Cittadella e gli ultimi anni tra C1 e C2 sempre in Emilia-Romagna tra Reggiana, San Marino e Forlì.

«Ho giocato ancora tre stagioni in A, fra l’altro anche in un’altra piazza importante come Napoli, cinque campionati in B tra cui uno con il Genoa e poi ho deciso di avvicinarmi a casa. Mi ero sposato e stabilito in provincia di Parma, giocando in C1 e C2 fino a 38 anni e come protagonista sino alle fine perché negli ultimi due campionati in C2 con San Marino e Forlì ho perso per due volte la finale playoff».

Chiudi con il calcio giocato a 39 anni in Eccellenza nel Terme Monticelli, ci puoi spiegare la scelta?

«Ho pensato che sarebbe stato bello finire la carriera facendo un campionato come esempio per i giovani e per un gruppo di calciatori dilettanti, dopo 20 anni di professionismo mi sentivo di dover dare qualcosa al calcio verace dei ragazzi che militano tra i dilettanti. Ho scelto la società più vicina a casa mia, praticamente il campo distava soltanto cento metri, mi sono divertito e spero di aver insegnato qualcosa ai miei compagni».

Appendi le scarpe al chiodo, ma subito diventi allenatore.

«Anche come allenatore ho fatto quasi tutta la trafila, sono partito con i Giovanissimi del Parma e gradino per gradino ho guidato la Primavera gialloblù sino a due semifinali consecutive al torneo di Viareggio. Il Parma è fallito, però per me si è aperta un’altra opportunità: Nevio Scala era stato nominato presidente del nuovo Parma e mi ha chiesto di dirigere il settore giovanile, quindi secondo salto di carriera, questa volta da allenatore a dirigente».

Concluso il rapporto con il Parma nel 2017 vai in Cina allo Jiangsu Suning, come si è prospettata questa nuova frontiera?

«Il mio ex compagno nelle giovanili dell’Inter Marco Monti era responsabile delle Academy nerazzurre e mi ha chiesto di presentare un progetto sulle giovanili, la mia presentazione è piaciuta ad un alto dirigente e mi hanno spedito nel nord della Cina, al confine con la Corea e la Mongolia».

Come mai si è interrotta la collaborazione?

«Nulla di segreto, c’entra ovviamente il Covid che ha fermato ogni attività dopo che avevamo completato al preparazione nel sud della Cina perché al nord  in inverno ci sono fino a 35 gradi sotto lo zero. Inoltre mio figlio ha avuto un grave problema a una gamba e ho quindi deciso di far ritorno in Italia».

Hai sempre allenato i ragazzi, non hai mai pensato di guidare una squadra di adulti seguendo l’esempio di tuo fratello Gianmaria, che ormai è un guru del calcio dilettantistico lombardo con la Speranza Agrate, neo promossa in Eccellenza?

«Ho avuto un paio di offerte per allenare in C: la prima volta ho rinunciato perché dovevo frequentare un master e, quindi, sarei stato assente nei primi giorni della settimana, fondamentali secondo me quando si guida una squadra, il secondo treno l’ho perso perché ero stato appena nominato direttore sportivo del settore giovanile del Parma. Infatti, in famiglia il mister è mio fratello Gianmaria, che ha portato la Speranza Agrate dalla Prima categoria all’Eccellenza. Ho una profonda ammirazione per chi allena o gioca nei dilettanti, per tutta la passione, la voglia e la competenza che ci mettono quando vanno all’allenamento o alla partita dopo magari aver fatto otto/nove ore di lavoro».

Attualmente sei ancora nel mondo del calcio?

«No, ho cambiato totalmente ambito e orizzonti, sono un tipo curioso, mi è sempre piaciuto sperimentare e mi occupo di ingegneria biomedicale, cioè di macchinari per gli ospedali».

Torniamo per un attimo in campo: tu eri un 10, un fantasista: sei stato penalizzato nel calcio degli anni Novanta?

«È una cosa risaputa, che non dico solo io; Sacchi aveva portato il dogma del 4-4-2 e un giocatore con le mie caratteristiche si doveva adattare o a fare l’esterno di centrocampo o la seconda punta. Mi troverei meglio nel calcio attuale, dove il ruolo del trequartista è ritornato di moda. Comunque, non mi sono mai abbattuto e a Napoli ero arretrato nella posizione di regista basso, un Pirlo ante litteram».

C’è un Fausto Pizzi nel calcio italiano odierno?

«Qualcuno mi ha accostato a Bernardeschi, ma sinceramente ci assomigliamo soltanto perché siamo entrambi mancini. Non vedo un calciatore con le mie caratteristiche tecniche e fisiche nella Serie A attuale».

Qual è stato il difensore più temibile che hai affrontato?

«Con Pasquale Bruno era sempre una battaglia. Riccardo Ferri, con cui mi allenavo, era veramente difficile superarlo, e la stessa cosa posso dire di suo fratello Giacomo che ho affrontato quando vestiva la maglia del Lecce. Erano tutti difensori che prima che alla loro prestazione personale pensavano a annullarti, praticamente a eliminarti dalla partita».

Chiudiamo con il gol più bello della tua carriera.

«Mi ricordo di un paio di gol in rovesciata segnati col Vicenza e l’Udinese, i più belli tecnicamente. Ma ce n’è uno che ricordo con piacere e che i tifosi del Vicenza mi ricordano sempre quando li incontro, il calcio di rigore segnato al 93′ dell’ultima partita contro il Trento . I tifosi erano incazzatissimi e avevano invaso il terreno di gioco perché eravamo a un millimetro dalla retrocessione in C2. Riportata la calma, sono andato io a calciare il rigore: gol e salvezza. Non sarà stato bello, ma quanto è stato importante».

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