Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, oltre a Trump e agli hacker russi

24 Agosto 2018 di Stefano Olivari

Per cancellarsi dai social network ci sono tantissimi buoni motivi, se si ragiona come cittadini e non come tristi individui alla disperata ricerca di un like o di un litigio, di solito con anonimi dal nickname ridicolo come la loro vita. Jaron Lanier nel suo Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, uscito in Italia per Il Saggiatore, ne elenca appunto dieci ma potrebbe andare avanti fino a cento vista la sua padronanza della materia e il suo spirito liberal ed eclettico.

Programmatore, imprenditore, musicista, filosofo, scrittore, esperto di realtà virtuale: per certi versi Lanier è la caricatura del guru da Silicon Valley, per certi altri un guru lo è davvero vista la sua storia di successi e di aziende in cui ha lasciato tracce, da Atari a Microsoft. Di sicuro è da una quindicina d’anni che è fra i più feroci critici del controllo che le grandi web-realtà americane (ce l’ha in particolare con Google e Facebook) esercitano sulle menti dei singoli e soprattutto sulle masse. Efficacissimo nelle interviste, in questo suo ultimo e interessante libro si concentra sui social network ma torna spesso a uno dei suoi temi preferiti, la qualità dell’informazione.

Il suo punto di vista è originale, per uno con la sua storia: sostiene infatti Lanier che il software open source unito la gratuità di piattaforme e contenuti abbia tolto qualsiasi valore al lavoro intellettuale (lui parla di maoismo digitale) e quindi buona parte degli incentivi nel proporlo in maniera onesta o per lo meno trasparente. Il programma, la piattaforma, il sito di informazione, non sono più un prodotto da vendere e che quindi deve essere migliore di un prodotto concorrente. Nel mondo di oggi ad essere in vendita è il lettore e le informazioni sulla propria vita che mette a disposizione più o meno volontariamente. Ne consegue che tutta la tendenza di tutto il web, e a maggior ragione dei social network, sarà quella di indurre reazioni che loro volta inducano altre reazioni. Il flame di breve periodo è così più utile agli inserzionisti di quanto non sia un articolo più meditato e con il senno di poi più interessante.

Questo è il punto: se in vendita siamo noi, dovremmo allora guardarci dagli inserzionisti che portano, quasi sempre legalmente ma non per questo giustamente, in alto le loro tesi e i comportamenti che ritengono più adatti alle nostre intenzioni di consumo e di voto. Lanier sostiene che a beneficiare di un’informazione di questo tipo siano spesso aziende che non mostrano il loro vero volto, con dietro magari hacker (russi, va da sé, già in Ucraina l’informatica dev’essere sconosciuta), e politici che come Trump basano la loro comunicazione su reazioni del pubblico generate dalla rabbia, senz’altro (qui difficile dargli torto, basta seguire Twitter) più numerose e intense di quelle di apprezzamento (Obama e la sua fidata NSA erano invece solo ammmore).

Come si esce da tutto questo? Le soluzioni proposte da Lanier sono interessanti e articolate, noi al bar le definiremmo una sorta di rivoluzione dal basso. Il cittadino prende coscienza, si cancella dai social network e si mette a seguire sul web soltanto i siti che gli interessano o che gli vengono segnalati da persone con le quali c’è un’interazione reale. Dolce ingenuità da controcultura californiana, purtroppo, visto che la maggior parte delle persone non è interessata alla propria privacy e vorrebbe soltanto che qualcuno, anche sconosciuto, si accorgesse della sua miserabile vita passata a fotografare bambini, angurie e tramonti, credendo poi con un tweet di influire sulle decisioni della Merkel.

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