Cosa resterà di Umberto Eco

20 Febbraio 2016 di Stefano Olivari

Umberto Eco è morto ieri a Milano, a 84 anni. Visto che si trattava dell’unico scrittore italiano di fama davvero internazionale, grazie soprattutto a Il Nome della Rosa, la notizia non può lasciare indifferenti nemmeno le persone fuori dal giro come noi. Rimandiamo a siti e giornali seri per approfondimenti, frasi copincollate da Wikipedia e aneddoti personali del genere ‘Proprio l’altra sera Umberto mi disse che…’ (Ultime virgolette di questo post proprio in omaggio a Eco, che le considerava uno dei crimini dell’italiese finto-ricercato): gli unici nostri rapporti personali con lui sono stati nostro padre geometra che decenni fa gli ristrutturò il bellissimo appartamento con vista sul Castello Sforzesco, con librerie rinforzate, e qualche nostro vip watching davanti alla pizzeria Rita e Antonio dietro al Teatro Dal Verme, durante la sua solita passeggiata serale. Un po’ poco per uscire dalla prospettiva di normali suoi lettori, quali siamo stati fino all’ultimo interessante, Numero Zero, uno dei tre libri della sua vita narrativa, gli altri sono Il Pendolo di Foucault e La Misteriosa fiamma della Regina Loana, ad essere ambientato quasi ai giorni nostri.

Infinita la sua produzione saggistica, fra l’universitario, il maniacale e il giornalistico, che però al di là di titoli molto citati e poco letti, Apocalittici e integrati un buon esempio, è sempre rimasta in un ghetto.  Il nostro Eco preferito è quello dei romanzi, che faceva uscire la sua cultura multidisciplinare dalla trappola dell’erudizione o del divertissement da salotto, per questo pensiamo che saranno tutti rivalutati quando questa generazione di critici sarà morta. È però ovviamente presto per metterlo in una prospettiva storica, come per tutti gli scrittori-personaggi: chi davvero oggi legge D’Annunzio? E Pasolini? Però già si può dire che la sua unicità è risieduta in un equilibrio quasi impossibile: intellettuale ovviamente di sinistra ma anche personaggio pop, editorialista acuto ma anche iper-critico del giornalismo, ex dirigente RAI ma nemico della superficialità televisiva, manager editoriale alla Bompiani ma anche cultore di nicchie fuori mercato, eversore di una certa tradizione letteraria con il Gruppo 63 ma anche fanatico dei classici, anti-berlusconiano in senso antropologico e politico ma anche cultore del mercato come tutti quelli che hanno successo.

Di sicuro un uomo di potere e pienamente immerso nei meccanismi di potere del suo tempo, non stiamo parlando di Bukowski. Nonostante la presenza, in posizione preminente, in diverse consorterie e clubbettini di persone che si leggono l’una con l’altra, era diventato il più americano degli scrittori italiani, non fosse altro che per il maniacale lavoro di ricerca dietro a ogni riga. Un crimine, per quello che rimane dell’intellighenzia di sinistra, che accettava la sua figura a denti stretti e soltanto per la sua dichiarata appartenenza alla parte giusta, alla mitica società civile. Cosa mancava ad Umberto Eco? Forse un po’ di fuoco sacro, la luce di una missione, l’urgenza folle di scrivere nonostante le decine di libri pubblicati. La tensione interiore del vero artista, in altre parole. Era un fenomeno, ma non un artista. Oppure, per un attimo ci echizziamo, non era un artista ma era un fenomeno.

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