Bateman for president

21 Ottobre 2010 di Simone Basso

di Simone Basso
Vent’anni fa veniva ufficiosamente ucciso il Novecento. Merito dell’American Psycho di Bret Easton Ellis, antiromanzo che mette di fronte alla fine di ogni utopia sociale e quindi alla genesi di un’umanità diversa…

“Abandon all hope ye who enter here”
“Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”

Vent’anni fa, in questi giorni, veniva ucciso ufficiosamente il Novecento. Il nuovo libro di Bret Easton Ellis, il terzo della serie, si presentò sul tavolo della Simon & Schuster: fu l’inizio di una miniodissea editoriale che ne rimandò l’uscita fino alla primavera 1991. “American psycho” agli occhi di un curatore di romanzi, apparve come un nonsense pornografico e psicotico, il delirio di un maniaco depresso, ex grande promessa della letteratura americana. In effetti l’esordio folgorante del 1985 con “Less than zero” (appena ventenne!) illuse molti di aver trovato l’Henry Miller postmoderno: le pagine spiazzanti di “American psycho”, che trovarono dopo molte vicissitudini la stampa della Vintage Books, invece fecero inorridire l’intellighenzia dell’epoca.
Malgrado i 300.000 dollari di anticipo, chi rifiutò quella novella fece un’operazione di estetica culturale; effettivamente, se lo considerassimo un romanzo come tutti gli altri, dovremmo definirlo brutto, scarno e deludente.
Però chi lesse quel flusso di coscienza come una storiaccia su un omicida seriale, feedback feroce degli Ottanta opulenti, non comprese nulla della potenza visionaria della cronaca. E’ una pietra miliare, la prima testimonianza scritta sull’uomo del Ventunesimo Secolo; racconta (con lo stile di una profezia beffarda) la genesi di un’umanità diversa, plagiata da concetti idealmente opposti a quelli che generarono il Secolo Breve.
Ellis narra della frattura con qualsiasi tipo di utopia sociale e l’ingresso trionfale nella fase nichilista della nostra cultura economica: Patrick Bateman, il broker protagonista della storia, è un fantasma di ventisei anni; uno yuppie bellissimo e completamente vuoto. E’ circondato da amici quasi indistinguibili l’uno dall’altro, la cui unica idealizzazione sono le merci che esibiscono e indossano. Manichini che espongono e consumano Mtv, vestiti, cravatte, biglietti di presentazione, scarpe, cocaina: il freddo dentro e fuori, la solitudine, la mancanza di empatia come modus vivendi e il sesso come atto meccanico, ripetitivo, alienante.
Con l’eccezione di Jean, la segretaria di Bateman, nessuno dei personaggi dell’opera possiede tratti umani; l’ironia plumbea che li circonda pare inghiottirli in una coltre nebbiosa, delirante.
Patrick, incredibile ma vero, si riappropria di uno chassis non spersonalizzato solo quando tortura e uccide le sue vittime; esibendo i tratti meno nobili del ventesimo secolo, finalmente dà vita alle sue fantasie represse.
La genialità di “American psycho” sta anche nell’abbandono consapevole di una struttura narrativa certa: è un antiromanzo, un loop, che non presenta uno svolgimento lineare, anzi si risolve con una circolarità di tematiche che riportano il lettore sempre al tema iniziale.
Mentre accade poco, tra una conversazione futile e l’accoltellamento di un bambino a Central Park, sembra materializzarsi un rumore bianco che ci introduce al futuro prossimo.
Oggi lo stile di vita di quei robot profumati è il gusto comune della maggioranza rumorosa: le ossessioni estetiche, la cura del corpo e la chirurgia plastica, e l’aderire prostrati alla società dello spettacolo,
l’immaginario venduto dai marchi, sono il motore di tutto lo scibile contemporaneo.
Patrick Bateman fu l’apripista politicamente scorretto di questa era cannibale, l’uomo oggetto che trionfò inconsapevole sulle macerie della socialità e della politica.
Di “American psycho” straparlarono in troppi, senza nemmeno leggerlo veramente; in quel diluvio di critiche, il solo Norman Mailer difese a spada tratta l’opera di Ellis: “E’ il primo romanzo dopo anni che ci colpisce nel profondo, con temi Dostoyevskiani…”. Il confine tracciato dallo scrittore californiano in quei capitoli è ancora valido adesso, mentre l’Occidente e la letteratura moderna si inerpicano (felici?) verso i cappi che li impiccheranno definitivamente.
“This is not an exit”
“Questa non è un’uscita”

Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto) 

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