Paul Pierce e i bambini norvegesi di una volta

4 Febbraio 2015 di Stefano Olivari

Non ci sono più i giocatori di una volta, dai fighetti del new sports jornalism che scrivono un poema sui movimenti di Ebagua al canottierato ruttante che sogna grazie ai prestiti con diritto di riscatto il grido è uno solo. Di recente, come ci ha segnalato Miky Pettene, al coro si è aggiunto uno come Paul Pierce che qualcosa nello sport lo ha fatto. Il giocatore degli Wizards è andato anche oltre, spiegando che ‘Non c’è più il trash talking di una volta’, quello in cui lui e Bryant eccellevano ed eccellono anche adesso che sono quasi al capolinea. Le nuove generazioni NBA, secondo Pierce, sono di tutt’altra pasta. Con il sottinteso che il trash talking sia cosa buona e giusta, non un’esibizione a volte controproducente (può svegliare avversari poco combattivi) di machismo tamarro.

La colpa?  Non del web o di Facebook, ma ci siete andati vicini. Secondo Pierce la colpa è dei computer in generale e dei ragazzi che crescono giocando a NBA2K invece che andando al parco a confrontarsi fisicamente e verbalmente con i coetanei. A memoria Pierce non è mai stato il testimonial di NBA2K (i primissimi avevano in copertina Allen Iverson, l’ultimo Kevin Durant), ma non è questo il punto. Perché i ragazzi di oggi sono come prestazioni puramente atletiche in media molto peggio di quelli di una volta, mentre il discorso non vale per l’elìte, i professionisti e gli amatori evoluti, che hanno strutture e allenamenti (per non dire altro) migliori e quindi si spingono sempre più in alto, pur con molti distinguo da fare.

Il nostro e in fondo anche quello di Pierce è bar, la misurazione dei tempi no. Lasciando perdere le mille ricerche condotte negli Stati Uniti che giungono a questa conclusione, prendiamone una europea e quindi non dopata da alimentazione e stili di vita troppo diversi dai nostri: quella dello Scandinavian Journal of Medicine e Science in Sports, punto di riferimento (molti articoli sono online in versione integrale) anche per alcuni medici sportivi italiani, resa pubblica nel 2010 e poi aggiornata senza significativi scostamenti rispetto all’originale. In pratica i ricercatori norvegesi hanno messo a confronto i tempi sui 3.000 metri, rilevati ai campionati scolastici o in test durante le ore di lezione, di circa 5mila adolescenti di Stavanger fra il 1969 e il 2009. Fino all’inizio degli anni Ottanta la media è rimasta simile, poi lentamente le prestazioni hanno iniziato a calare, per crollare poi da fine anni Novanta ai giorni nostri. L’adolescente medio 2015 di Stavanger, non paragonabile a quello di Eldoret ma senz’altro a quello di Foggia, corre i 3.000 quasi un minuto e mezzo più piano di suo padre alla stessa età. La ricerca è interessante perché non è basata su prestazioni estreme ma su gente come noi, con l’altrettanto interessante notazione che le ragazze sono peggiorate in percentuale soltanto la metà dei ragazzi.

Fin troppo facile concludere che l’inizio del declino fisico dell’adolescente occidentale, confermato da anche da tanti convegni di allenatori (il preparatore dei portieri della nazionale di Conte e del Genoa, Gianluca Spinelli, ci ha raccontato della differenza di ‘memoria motoria’ fra italiani e brasiliani, usando test sulla coordinazione occhio-mano), sia iniziato con la diffusione di massa dei videogiochi ed abbia avuto un’accelerazione con quella di internet. E che le donne, meno affascinate dai giocattoli tech, si siano in parte salvate. È ovviamente una spiegazione parziale, che va di pari passo con i mutamenti culturali e le paure spesso irrazionali dei genitori. Di sicuro, qui non c’è bisogno di test, non è diminuito il trash talking. La differenza è che si insulta un avversario sovrappeso seduto a fianco o collegato online.

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