Il Cardellino e noi incatenati

12 Settembre 2014 di Stefano Olivari

Il Cardellino di Donna Tartt è il romanzo dell’anno, anche in Italia, ma nonostante questa atroce definizione da fascetta non merita di essere archiviato come il classico librone (900 pagine circa) estivo che bisogna leggere in nome di chissà quale dovere o, peggio, perché si sono lette recensioni inneggianti al capolavoro. Quasi meglio dire che siamo stati conquistati dalla foto dell’autrice, splendida cinquantenne stile Diane Keaton. Qui si gioca nel campionato che potremmo chiamare GRACA, ‘Grande Romanzo Americano Con Ambizioni’, dove gli squadroni alla Roth o alla Franzen si possono battere solo inventando personaggi, prima ancora che storie, memorabili. La Tartt ci riesce solo in parte con il protagonista, il bambino poi adolescente e poi adulto Theo, nel quale si incarna usando la prima persona singolare con grande sprezzo del pericolo (nessuna donna ragiona come un uomo e viceversa) e in alcuni passaggi anche del ridicolo. Theo è un bambino sensibile e intelligente, che durante una visita casuale al Metropolitan Museum di New York insieme alla madre ha la sfortuna di ritrovarsi nel mezzo di un attentato terroristico. Nella confusione e senza nemmeno capire il perché, si impossessa di un piccolo e famoso quadro del Seicento, Il Cardellino, dell’olandese Carel Fabritius (esiste sul serio, solo che è esposto a L’Aia), vera passione-ossessione della madre appena morta durante l’esplosione. Il padre ha lasciato la famiglia da tempo e dopo un traumatico approccio con i servizi sociali Theo riesce a farsi affidare alla ricca famiglia Barbour, uno dei cui figli, Andy, è stato suo compagno di scuola. Poco dopo l’attentato Theo ha ricevuto, lì al Metropolitan Museum, da un vecchio moribondo (Welty) un anello e proprio dalla riconsegna dell’anello parte il percorso di crescita del ragazzo, che ha una tappa importante in un folle periodo a Las Vegas nella casa del padre, attore fallito e giocatore d’azzardo ancora più fallito, dove trova l’amico della vita, Boris (qui le vecchie antologie avrebbero parlato di ‘Romanzo di formazione’, cosa che del resto il libro in parte è). Il tutto pensando a una ragazza, Pippa, vista sempre il giorno dell’attentato (è la nipote di Welty) e a cosa fare del quadro. Una figura decisiva è Hobie, il socio di Welty, che lo introduce ai segreti dell’antiquariato e del restauro, che poi Theo rielaborerà a modo suo. Ci fermiamo qui con la trama, più lunga che complessa, per venire all’essenza del libro. Che è quella di un’identificazione, inconsapevole ma totale e martellante, con il soggetto del quadro di Fabritius: un uccellino, appunto, che sta su una mensola e lì rimane perché una delle sue zampine vi è legata. Un quadro commovente e in cui è facile ‘entrare’, per la dignità di questo prigioniero senza colpe e il messaggio che sembra lanciare a ogni essere umano, del genere “La vita mi ha riservato poca fortuna, ma io sono ancora qui”. L’impianto ideologico de Il Cardellino è forte e coinvolgente, mentre in molte parti la trama sta insieme a fatica, la Tartt si innamora dei suoi virtuosismi (nella parte ambientata ad Amsterdam ci sono 50 pagine di troppo) e molte situazioni (tipo la fissazione per farmaci e droghe) sembrano una tassa da pagare alla letteratura americana moderna. Conclusione? Tempo non buttato, né da chi l’ha scritto né da chi l’ha letto.

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