Trent’anni e due laghi

10 Dicembre 2013 di Oscar Eleni

Oscar Eleni dalle deliziose vacanze romane fra il protettorato del conte Aquari, collega nobilissimo e compagno di tante zingarate professionali, fraterno amico con il quale abbiamo ritirato il premio Berra, e il paradiso dei “Due Laghi” ad Anguillara Sabazia, nel regno di Federico Nizza, cavaliere fiorentino classe 1948, l’uomo che esaltava la zona pressing del professor Guerrieri ai tempi di Vigevano, il biondo dell’altra Milano, dell’All’Onestà dove ha giocato ben 8 anni, due volte nazionale contro la Germania, da dove discende la nobile famiglia. Cercavamo la luce  e l’insistenza di una cognata come Marianna, pure lei ex azzurra di basket, stella della Bologna di Civolani e della Corsini, che ai Due Laghi quasi ci vive come tutor per Filippo Catarci, nipote di Nizza, figlio di Amarilli, soprano accalamata da Tokio a Verona, promettente cavaliere per l’equitazione in prospettiva Olimpiadi anche se ha soltanto 15 anni, ma i  cavalli interpretati da lui saltano bene, volano, anche se è un longilineo che poteva certo fare bene pure nel basket se non lo avessero messo davanti alle scelte assurde come capita con i nostri allenatori di base un po’ maniaci: questo ragazzo che ha medie altissime al classico, un talento di coordinazione, insomma  davanti alla scelta ha preferito i cavalli e speriamo arivi davvero in medaglia olimpica. Lo capiamo dopo esserci svegliati ai Due Laghi in una natura mai offesa, accarezzata piuttosto, in un centro dove tutto sembra nascere per farti stare bene, per guarirti dall’ansia. Cavalli liberi intorno a te, stavamo gustando un magnifico Amaltea, prodotto caprino nel nuovo paradiso, quando un anziano stallone grigio si è avvicinato per capire se eravamo disponibili a fare quattro chiacchiere. Ci abbiamo provato come con Varenne tanto tempo fa. Sembrava comprensivo come  i quattro cagnoni di Nizza, quattro di un esercito che  cresce nella proprietà dove il più straordinario sembra Ignazio, cane da caccia, ma obiettore di coscienza che si rifiuta di andare dietro al branco anche quando ci sono le giornate di cacce simulate.

Vacanze romane fra la dolce culla dell’atletica dove ci ha riportato Augusto Frasca, quando servire una causa e la stampa era dovere creativo, tigna da Gran Sasso, con la commissione premi riesumata alla vita dalla presidenza Giomi dopo il periodo un po’ confuso  del prefetto di acero Franco Arese che preferiva altri cieli, altre strategie. Stranamente lontano da un mondo che, invece, avrebbe avuto e ha bisogno di stare più insieme, magari anche per litigare come avveniva anche nell’era Nebiolo, ma cercando, alla fine, una casa comune, fra diaconi veri e spretati, fra gente geniale e mozza orecchi,  uomini di grande cultura e finti baroni, fra leoni e camaleonti.

L’atletica celebrata nella sala d’onore del Coni nel nome di Bruno Zauli, il dirigente che più ha cambiato e rivoluzionato lo sport italiano, dalla scuola ai massimi livelli e dove sono nate piste col suo nome, centri studi e di lavoro sul campo con le sue idee,  dove abbiamo visto fiorire i più bei campioni della nostra atletica, pollini che poi sono andati anche in altri giardini portando il seme che è servito per dare una base a chi poi, magari, è diventato famoso come cestista, pugile, pallavolista, persino nuotatore, altro sport di base che dovrebbe essere sempre al centro di un orario moderno di eduzazione fisica.

Salone del Coni dove presentammo il libro su Rubini che già adesso meriterebbe una riedizione con nuovi episodi raccontati da chi lo ha conosciuto sul campo e fuori. Sempre Malagò officiante. Ha una energia straordinaria questo presidente del CONI che trovi ovunque ci sia bisogno di progettare, lanciare, difendere  idee. Baci a abbracci per tutti, ma non una cosa di facciata, di sola convenienza politica dorotea. Se hai cose importanti da dirgli, se hai detto cose importanti ti richiama, vuole approfondire. Insomma un dirigente che sa come siano ostili quelli che frequentano i campi verso chi guida politicamente una federazione, una società.

Mamma atletica così comprensiva anche con le amnesie normali nel passare del tempo. Famiglia allargata. Poi rigenerazione ai Due Laghi, campionato con la necrosi dei sentimenti, il siluramento di Gresta con lo stesso stile usato per Caja, insomma se lavori per la salvezza, perché quello passa il convento fra torroni e tettazze, non trovi compenso, riconoscenza. Sarà l’acqua del grande fiume a creare questa finta atmosfera di grandezza irraggiungibile con quello che ti porti in casa. Peccato. Pazienza. Siamo a due teste ghigliottinate in corsa nel campionato dove l’influenza del regno dove gli ultras fanno e disfano, tolgono patenti, fanno togliere maglie, sembra aver lasciato scorie anche in territori diversi, quelli dove si cerca in tutti i modi una fuga dal professionismo che costa davvero troppo.

Dopo il campionato, le farfalle da cimitero con aroma vendicativo che annunciano persino onde di riflusso nelle società, tipo Milano, dove appunto quelle farfalle erano state adottate, nutrite e persino guardate con ammirazione, dopo esserci assicurati che Banchi sapeva e sa bene dove andare, eccoci  di nuovo al palazzo Acca dove Gianni Petrucci, dominus per 14 anni, ora vassallo come presidente di ritorno nel basket, ha portato la cerimonia per l’ingresso dei grandi nella “Casa della gloria”, casa senza muri anche adesso, purtroppo, dove ha voluto far vedere a Malagò che la federbasket non può essere considerata come una delle tante federazioni sui cui governa, perché ha una grande storia, bei progetti, eccellenti dirigenti, almeno così pensa il sindaco del Circeo che ancora aspetta di liberare Milano  e la Lombardia dal commissario federale.

Giornata finita bene al circolo del tennis perché in quella atmosfera  dove era facile riconoscersi, complici nella vita, nei viaggi, nelle confessioni pubbliche e private, abbiamo riscoperto perché ci si poteva innamorare del nostro basket, dei nostri veri campioni, veri perché non amavano fare trucchi, farsi difendere dagli agenti e dai parenti, perché la faccia la mettevano allora come molti di loro la mettono adesso. Pensiamo al Villalta che difende l’idea Virtus come la voleva Porelli, a Sacchetti che sul fronte di Sassari non accetta il compromesso col giocatore soltanto mercenario, all’Arione Costa che tenta l’impossibile nella Pesaro dimenticata dai suoi fedeli più facoltosi, al Brunamonti che vorrebbe tornare, al Vecchiato sfinito da battaglie impossibili, al Caglieris fortebraccio che ha insegnato, insegna, va nelle scuole,nelle carceri, che ha tanto da dare e dire, ma ora si gode il sole in Liguria, al Bonamico pronto a battersi contro tutto e tutti, uno che aveva idee, ma che non piaceva a chi preferisce averne poche e non buone, al Gilardi della Roma bella, al Tonut che presenta il suo bimbone mastino campione d’Europa nel gruppo d’oro di Sacripanti, all’Antonello Riva che resta figlio del tuono anche se deve stare sotto la serie A.

Mondo basket come lo ricordavamo quando il sciur Gamba, il gigante, il nostro Spartaco, ha presentato Valerio Bianchini, Cata Pollini, lo straripante Sandro Galleani che Varese ha rivoluto almeno come dirigente adesso che deve restituire alla famiglia 40 anni di interessi spesi nel mondo coi suoi ragazzi da massaggiare, guarire e confessare. In quel mondo magico c’erano, ovviamente, anche il compianto Gino Burcovich, nato nella grande scuola arbitrale veneziana, ex giocatore e poi straordinario uomo di campo e di leggi, c’era di sicuro Riccardo Sales, rappresentato dal figlio psicologo Andrea che sembrava quel giocatore di football fuggito sui monti nel film “Chiamamii Aquila”, ma ricordato alla maniera dei trovieri dal Santi Puglisi che era assistente  con lui nella nazionale d’oro del Gamba 1983.

Vacanze romane per dimenticare tutto il resto. Invidiatemi pure e sgridatemi come il nostro direttore per aver ritardato di un giorno. Chevvefrega, sapete l’influenza di Roma si sente subito, state allegri perché agli smemorati ricorderemo sempre che esisteva una terra dei canestri che si iluminava al Muro Torto e ha avuto grandi padri e stupendi figli, pazienza se qualcuno fa una grande fatica a ricordarlo, ma adesso siamo nell’era del segretariato virtuoso, da Garcea a Bertea guarda il destino dei nomi e dei caratteri, dei dirigenti che sanno tutto, ma non conoscono nessuno che trasmetta in modo decente il loro pensiero, persino  le loro partite e se hanno una diretta la piazzano sempre  quando nelle case chi vuole vedere basket soccombe davanti ai calciomanti.

Pagelle dalle stalle di Nizza, fra cani, gatti, cavalli, con la supervisione di Ignazio cane da caccia obiettore di coscienza che piacerebbe persino al Puglisi che da padre di una senatrice ha lasciato il basket per  seguire i nipoti corsoliniani.

10 A Gianni PETRUCCI per aver ridato al basket un giorno di memoria e non soltanto quella, per aver rinunciato all’orgoglio andando nella ex casa grande dove c’era ad attenderlo il Malagò che sa delle sofferenze di uno sport dove lui ha portato il  Toti della Roma  che usciva dai fasti di Gardini e Sama. Anche Rubini lo ringrazierebbe, lo avrebbe salutato volentieri quando si parlava del libretto che la sua federazione berteiana, speriamo non laguardiosa, evita persino di sfogliare, magari perché come è capitato a noi un giorno ce ne hanno dato uno con tutte pagine bianche. Una meraviglia. Nel basket day avremmo potuto scrivere insieme altri capitoli.

9 A Sandro GAMBA che anche se deve usare il bastone non ha fatto una piega se una regia impietosa, che lo aveva messo in una fila lontana, gli ha imposto di andare al proscenio almeno cinque volte. Soffrenza, ma dignità. Questo è il nostro Spartaco che ha parlato ai nuovi talenti e ai vecchi campioni facendosi capire benissimo come diceva la Stella invidiando Marina Bianchini e la moglie di Galleani celebrate dai loro mariti.

8 A Dino MENEGHIN che, finalmente, sta tornando l’uomo straordinario dei momenti di burrasca, quando ti sapeva far sorridere partendo “Per un’altra avventura” come dice il libro di Casalini. Poco a poco sta dimenticando il poltichese ammuffito e ritrova il piacere di fare gruppo con i vecchi compagni.

7 A Luca CHIABOTTI, inviato della Gazza con meno orgasmi, per aver  scritto nella sua cronaca della giornata romana che il dopo premiazioni, al momento del caffè e dei saluti, sarebbe stato utile come clinic per i fantaccini di Azzurra ternera, ma anche per il Pianigiani che non puoi mai trascinare in qualche goliardata nel mare della santa ironia, perché anche se gli dici che hai conosciuto Fil di Ferro, nome d’arte ai tempi del Palio quando nel 1951 montò Lola per il Bruco, del cavaliere Mario Maini, grande dell’equitazione che ora svezza il nipote di Nizza ai Due Laghi, lo vedi imprecare come se fosse colpa nostra questo digiuno della Lupa, contrada nonna che non vince da tanto, un po’ come lui da quando ha lasciato Siena, anche se con la Nazionale, lo diremo sempre, ha fatto più di quello che valeva la squadra.

6 A Catarina POLLINI, vicentina classe 1966, che, come Roberto Brunamonti, Spoleto 1958, gioca ancora, si diverte, trasmette alla figlia il piacere del combattimento  in qualsiasi arena: campo di gioco, vita di ogni giorno.

5 Ai brontoloni che fermano la rigenerazione della CIMBERIO. Come dicevano certi indimenticabili di Azzurra ’83, è meglio mandar via subito i lavativi, magari indebolirsi, ma poi ritrovare se stessi lavorando sapendo che chi resta ha davvero voglia.

4 Al CUSIN giustiziere vendicatore del Molin che l’anno scorso partecipava, con Trinchieri, alla demolizione dell’unico centro che siamo riusciti a presentare nell’europeo. Apprezziamo la sua memoria, il suo zen da  nemici che passano sul fiume, a Capodistria il Trinca, in campionato don Lele, ma vorremmo che restasse così feroce e determinante fino in fondo.

3 Al primo SCOPRITORE di ACQUA CALDA che ci affronterà per lamentarsi dei troppi stranieri, la maggioranza pure mediocri, e della sofferenza dei virgulti italiani. Ora se ci parlate di Melli, persino di Gentile, qualche volta di Imbrò, Fontecchio stiamo ad ascoltare, ma poi ci viene in mente che spesso ti capita di dover difendere l’impossibile, i cali di tensione di troppi ragazzi da razza protetta. Cara gente è il campo a parlare. Chiedete al sciur Gamba e persino al Bianchini che si  finge lord protetttore della scuola ma, giustamente, protesta contro il time out  per farsi ascoltare da chi guarda la bionda in tribuna. Certo, meglio il Laso del Real che agli stranieri chiede di imparare presto lo spagnolo se vogliono un posto nella casa blanca.

2 A Daniel HACKETT che resta il numero uno del nostro basket  ma sembra pronto con la valigia in mano. Ci ha fatto già soffrire in estate con il no ad Azzurra, che lo avrebbe atteso almeno un giorno in più del Bargnani che New York si è appena mangiata dopo il flop con Boston, ora lo lasceremo libero soltanto se Minucci ci giurerà che questo sacrificio salverà la stagione della grande Mens Sana campione in carica dai tempi in cui si pensava che bastassero i soldi per vincere.

1 A Massimo BLASETTI l’ultimo vero grande segretario della Federbasket, geniale, ironico, uno che sapeva parlare e sussurrare ai giocatori, che sapeva capire presidenti e giganti come Rubini, per aver confessato, alla fine, che lui e Silvestri avevano davvero  un affetto speciale per quei manigoldi che da Mosca a Stoccarda hanno dato al nostro basket una gioia consapevole, perché eravamo almeno famiglia e non c’era bisogno di tutori per poter scambiare una battuta come con questi balotelliani di nuova generazione, forti come tori, ma anche muli che spesso scivolano sulla roccia e dopo diventa difficile andare a riprendere in fondo alla gola.

0 A Pier(Lui)gi MARZORATI che, come sempre, quando manca alle  feste del basket, alle presentazioni dei libri sui giganti del basket, avrà una buonissima scusa. Per noi numero zero della pagella ad interim. Lo ha notato anche il presidente del CONI Malagò che il suo vassallo capo scalo nella regione Lombardia lo sente fin troppe volte al telefono, anche quando fa di tutto per evitare cambiando carta  telefonica. Anche i suoi ex compagni, tutti in piedi per ricordare i grandi, per Galleani, per Gamba, tutti insieme nel tavolone al circolo del tennis, hanno notato, ma nessuno ha criticato. Lo conoscono, lo hanno spesso aiutato e perdonato perché sapevano che lui li avrebbe perdonati ed aiutati sul campo come nella prima a Limoges contro la Spagna che aprì il mare verso l’Europeo. La festa si è fatta lo stesso. Lui ci chiamerà per protestare, ma se Peterson è sempre numero uno, magari smemorato nei sentimenti come sempre, anche da comprimario come a Roma, purtroppo il meraviglioso e simpatico Ippoliti che ha diretto la lunga premiazione non poteva coinvolgerlo di più, con le mine vaganti Bianchini e Galleani da fermare al secondo sarò breve, per il Pierlo saremo crudeli: zero fino a scusa decente e a prova contraria.

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