Wikipedia non ci ha ancora Roth

10 Settembre 2012 di Stefano Olivari

Il caso Philip Roth-Wikipedia ci ha ricordato che esiste ancora qualcuno che crede ad un generico ‘web’ allo stesso modo in cui i nostri nonni pensavano ‘L’ha scritto il giornale’ e i nostri genitori ‘L’hanno detto in televisione’. Non è quindi inutile ricordare che qualunque persona ha un interesse e una convenienza personali in quello che fa (a partire da noi su Indiscreto) e che quindi ogni informazione va verificata, a maggior ragione quelle non firmate e ammantate di una generica asetticità (i fatti separati dalle opinioni, un falso mito che un aggettivo o un’omissione possono tranquillamente abbattere). Detto questo, Wikipedia ha subito corretto l’informazione errata sul protagonista del romanzo ‘La macchia umana’ (non lo scrittore Anatole Broyard, ma un vecchio collega di Roth) ed è così paradossalmente risultata vincitrice in questa scaramuccia ideologica. ‘E’ proprio così, fonte Wikipedia’ non si può davvero sentire, ma è meglio un’informazione (da verificare) in più di una in meno.

Tutte queste faticose righe per arrivare a parlare proprio di La Macchia Umana, appena terminato in leggerissimo ritardo sulla sua uscita (2000), ma del resto Roth aspira legittimamente al Nobel e ha un’assimilazione diversa da quella di un instant book sullo scudetto. La trama è nota, anche per via del film con Anthony Hopkins: un famoso professore universitario, Coleman Silk, entra nel mirino di colleghi politicamente corretti ma soprattutto invidiosi del suo carisma per avere definito ‘spook’ (fantasmi) due studenti mai presenti alle lezioni. Per sua sfortuna questi due studenti, dei quali Silk non immaginava la razza, sono neri e ‘spook’ è un termine che applicato a loro fa Ku Klux Klan, quindi l’università usa questo pretesto per farlo in sostanza fuori inducendolo alle dimissioni. Con lui che si sente perseguitato e la sua vita che scivola verso il basso, dalla morte della moglie a tutto il resto. Silk nasconde un segreto, scoperto dall’occasionale amico Nathan Zuckerman (che anche in altri romanzi è una specie di alter ego di Roth), che pone la vicenda del suo addio al college in una luce paradossale.

Roth ha buonissime carte in mano, del resto è stato lui a distribuirle, ma non se le gioca benissimo in quello che sembra un capolavoro imcompiuto. Preoccupato più di ‘fare letteratura’, che di scriverla, il possibile premio Nobel (se l’ha vinto Dario Fo dovrebbero vincerlo anche Pippo Franco e a maggior ragione Roth), uno degli scrittori più grandi del pianeta in questa opera è vittima dei cliché del cosiddetto ‘grande romanzo americano’. Tanto psicologismo, un po’ di machismo, il passato che presenta il conto, qualche tirata politica (un po’ forzati gli insert sul caso Clinton-Lewinski, oltre che volgari più nei confronti della stagista che del presidente), ma soprattutto l’insopportabile (nei libri) sesso come chiave interpretativa della realtà. Quest’ultimo, se facciamo eccezione per Il lamento di Portnoy, è più un difetto di altri grandi scrittori che di Roth, ma adesso è di questo libro che stiamo parlando. Che fra i suoi punti di forza non ha tanto il discorso su razze e scelte di vita, che pure prende parecchie pagine, quanto il modo in cui ogni essere umano si percepisce e vuole essere percepito. E quindi? La versione italiana di Wikipedia liquida il romanzo in tre righe, quella inglese si allarga un po’ ma dedicandosi più alle polemiche che al contenuto. Vale la pena di leggerlo, il libro. E magari poi di aggiornare Wikipedia.

Twitter @StefanoOlivari

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